di Alessandra Pierantoni e Federica Capitani

Nel suo discorso all’evento “Transforming Food Systems in the face of Climate Change”, alla Cop28 di Dubai, la presidente Meloni ha parlato della necessità di produrre cibo sano e di puntare su coltivazioni resistenti ai cambiamenti climatici. Il suo intervento rientra nella “Dichiarazione sull’agricoltura sostenibile, i sistemi alimentari resilienti e l’azione per il clima”, la prima risoluzione nella storia delle Conferenze delle Parti a esplicitare i legami tra cambiamento climatico e scelte alimentari, che è stata firmata da 134 Paesi, tra cui l’Italia. Tra gli impegni, appunti, c’è quello di rendere più sostenibile il cibo. Nei punti e nelle promesse dell’accordo, però, non si fa riferimento al legame tra le emissioni e i prodotti animali e non si menzionano i benefici delle diete a base vegetale.

I dati non mancano: il paragone tra le varie diete realizzato dall’Ipcc mostra chiaramente i benefici delle diete vegane e vegetariane non solo per il minore impatto ambientale, ma anche per la salute; l’Università di Oxford ha condotto pochi mesi fa un’analisi basata sull’alimentazione di 55 mila persone nel Regno Unito, analizzando anche i dati forniti da 38mila aziende agricole in 119 paesi, che dimostra che la dieta vegana ha un impatto ambientale inferiore del 30% rispetto a quello della dieta onnivora.

La dieta citata da Meloni è quella mediterranea: questo tipo di alimentazione, però, come spiega la nutrizionista Silvia Goggi, vede come base cereali, legumi, verdure, e solo occasionalmente la carne, la cui industria legata agli allevamenti intensivi è ancora estremamente difesa nel nostro Paese, nonostante le sue conseguenze negative sia sull’ambiente che sulla salute, e il cui consumo medio giornaliero è pari a 128 grammi nel nostro Paese, secondo il rapporto di Demetria Onlus del 2021. Questi rimandi a una dieta che non è poi così seguita si collegano ai tentativi di difendere la tradizione culinaria italiana, la quale in realtà prevede molti piatti tipici a base vegetale: basti pensare alla caponata, alla ribollita, e a fave e cicoria, tra le tante.

Invece di puntare ad incentivi sulla scelta vegana e vegetariana e a un’educazione alimentare che tenga conto anche dei legami tra cibo e ambiente, Meloni coglie l’occasione per ribadire la sua posizione contro la carne da lei definita sintetica: il tema è ormai da mesi al centro di molte discussioni in Italia, culminate pochi giorni fa dalla notifica all’Unione Europea, da parte del Presidente Mattarella, del disegno di legge approvato dal Parlamento riguardante il divieto di produzione e vendita di cibi ottenuti da colture cellularida. La carne prodotta in laboratorio, detta anche coltivata, non si può però definire esattamente sintetica come dice Meloni, in quanto questo aggettivo indica “il risultato di processi in cui si utilizzano composti e reazioni chimiche”, secondo quanto affermato da Roberto Defez dell’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) di Napoli, membro del Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi. La carne coltivata, invece, è il risultato di un processo che parte dalle cellule staminali dei muscoli degli animali, che vengono poi moltiplicate in laboratorio.

Un altro scopo della risoluzione della Cop28 sulla sostenibilità del cibo è quello di garantire un accesso equo al cibo, accesso non garantito a causa anche degli eventi meteorologici e climatici estremi, nozione menzionata nel discorso senza però illustrare le potenziali cause dirette o indirette della mancata sicurezza alimentare. Questo implica che il settore agricolo e agroalimentare influiscono sulla garanzia dell’accesso al cibo: il 40% dei terreni globali, infatti, è destinato alla produzione alimentare, percentuale che include anche la porzione destinata ai mangimi per gli animali da allevamento. Un articolo di Slow Food Italia del 2019 denuncia, inoltre, l’aumento delle monoculture intensive in varie regioni d’Italia, culture le quali danneggiano le proprietà rigenerative dei suoli e la distruzioni di micro ecosistemi stabili. Le monoculture intensive prevedono che si coltiva la stessa specie vegetale per tutto l’arco dell’anno costantemente e meccanicamente. Un articolo di Openpolis ci illustra che la crescente siccità avvenuta negli ultimi anni e il carente sistema idrico italiano [a livello nazionale, un comune perde in media il 37,2% di acqua prelevata dalle fonti di approvvigionamento] riducono sia l’utilizzo di terre per uso agricolo che, di conseguenza, l’accesso al cibo.

Oltre ai rischi ambientali menzionati, ci sono anche dei rischi sociali da non sottovalutare, tra cui la dipendenza economica della coltivazione di un ortaggio o di un cereale altamente richiesto sul mercato. Questo implica che il potere decisionale sulla coltivazione, sulla produzione e sui prezzi di un prodotto è dettata dalle grandi industrie alimentari.

Anche a questa Cop, insomma, si parla troppo poco del consumo alimentare: non basta rendere due terzi dei menù offerti alla conferenza vegetariani e vegani. Servono pratiche e leggi. Molti attivisti, infatti, si sono radunati nei giorni scorsi fuori dalla sede della conferenza nel tentativo di incoraggiare gli Stati partecipanti ad adottare politiche volte a promuovere diete più vegetali possibile e a sensibilizzare su questi temi per ostacolare la disinformazione e i conseguenti pregiudizi contro chi decide di non mangiare più animali e derivati. Alcuni Paesi stanno già iniziando a prendere provvedimenti in quest’ottica, come la Danimarca, che a ottobre ha presentato un piano d’azione volto ad aumentare la produzione di alimenti vegetali, a formare gli chef delle mense e a investire sulla ricerca, o come la città olandese di Harlem, che dal 2024 vieterà le pubblicità sulla carne. Inoltre, è necessario effettuare dei cambi drastici all’interno della filiera agricola

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Cop 28 di Dubai, il veto dell’Opec agli Stati associati (tra cui gli Emirati Arabi, padroni di casa): “Rifiutate testi che penalizzino i combustibili fossili”

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