“Sei costretto a farti largo nel vento e vieni sospinto tra le tombe dei morti di Colombo. Qui giacciono eroici soldati, politici assassinati, giornalisti dalla bocca troppo larga. Cerchi volti familiari, celebrità, come la dottoressa Ranee, o magari il principe Vjaya. Vedi solo spiriti anonimi e dimenticati, proprio come quando erano vivi. E qui, tra le vittime dei bombardamenti, i bruciati vivi e gli scomparsi. Ci sei tu, causa di morte ancora imprecisa”.

Le sette lune di Maali Almeida, di Shehan Karunatilaka (traduzione di Silvia Castoldi; Fazi Editore), è uno splendido esempio di realismo magico (con un pizzico di acido lisergico) che mette in luce e denuncia, in modo originalissimo, la carneficina della guerra civile dello Sri Lanka. Maali, il protagonista morto del romanzo, è (è stato) un fotoreporter di guerra, un giocatore d’azzardo e un ateo. All’inizio della storia lo troviamo nell’Aldilà. Un Aldilà che è un mix tra un brutto scherzo e un ufficio delle imposte. Altre anime lo circondano, con membra smembrate e vestiti macchiati di sangue. Molte delle persone che incontra in questa anticamera impiegatizia sono vittime della violenza che ha afflitto lo Sri Lanka negli anni Ottanta, morti ammazzati dall’esercito, dai paramilitari, dalle Tigri Tamil o dal gruppo marxista Janatha Vimukthi Peramuna.

Maali, che è stato testimone della brutalità delle insurrezioni nello Sri Lanka, ha foto scottanti conservate sotto il letto, foto che potrebbero far cadere il governo e mettere in luce l’orrore nascosto sotto il tappeto della legalità costituzionale. Ora, bloccato negli inferi, ha solo sette lune (una settimana) per mettersi in contatto con la sua amica Jaki e farle recuperare le sue fotografie e condividerle, una sorta di eredità per il suo Paese e una difesa contro l’amnesia collettiva. Scritto in seconda persona Le sette lune di Maali Almeida è un’esplosione narrativa avvincente, ricca di similitudini e di un humor nero formidabile, tra Salman Rushdie, Gabriel García Márquez, Nikolai Gogol, Mikhail Bulgakov e il giornalismo gonzo di Hunter Stockton Thompson.

“Ovunque si percepiva la volontà di riprendere il controllo dei giovani, di mettere l’università al passo, di imporre una disciplina agli studenti. Alcune ragazze si erano viste chiudere in faccia le porte delle scuole superiori perché indossavano la minigonna. Alla facoltà di scienze, uno studente cappellone era stato aggredito da alcuni ultranazionalisti che proclamavano a gran voce la loro osservanza all’ordine morale cristiano. Aris si era adirato. «Ci manca soltanto che buttino in prigione gli studenti che ascoltano i Beatles»”.

Non piangere la Grecia, di Bruno Doucey (traduzione di Francesco Bruno; Crocetti Editore), è un commovente romanzo dedicato a una delle figure più importanti della poesia e della cultura greca e a uno degli avvenimenti tragici della nazione. Il 21 aprile 1967 ad Atene i carri armati scendono nelle strade: è il colpo di Stato di quella che verrà denominata “dittatura dei colonnelli”. In pochi giorni migliaia di persone furono arrestate, imprigionate, torturate, alcune di loro eliminate perché comuniste, socialiste o semplicemente favorevoli a idee che difendevano la libertà, la condivisione della ricchezza e l’uguaglianza di accesso per tutti alla cultura. Si riaprono i campi di concentramento per buttarvi gli oppositori. Tra questi il ​​famoso poeta Ghiannis Ritsos.

Nello stesso periodo, a Parigi, un giovane di Lione, Antoine, viene reclutato da Claude Durand, editore, per lavorare con Aris Fakinos e Clément Lépides, allo sviluppo di quello che sarebbe stato il Libro nero della dittatura in Grecia. Antoine ha perso le tracce di Fotini, una studentessa greca di cui è innamorato. Immerso nel cuore della preparazione del libro, Antoine prende coscienza dell’orrore fascista. Andando alla ricerca della ragazza si confronterà con l’esperienza di Ritsos e con quella di migliaia di greci abusati, rinchiusi e torturati dalla violenza della giunta. Un testo toccante e imbevuto di rabbia. Rabbia nei confronti di chi, nel mondo, sapeva e non fece niente, lasciando che migliaia di cittadini venissero arrestati, torturati, stuprati e deportati su isole rocciose abitate da topi e insetti. Così come è toccante la volontà di Ritsos di continuare a comporre versi (mentali) per sopravvivere. Sprovvisto di carta e matite, le parole gli si solidificano in testa per essere, un giorno, testimonianza dell’orrore e della stupida, inumana forza reazionaria.

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