Ergastolo con due anni di isolamento diurno per il padre Shabbar Abbas e la madre Nazia Shaheen. Trent’anni per lo zio Danish Hasnain e i cugini Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz. Sono le richieste di condanna della Procura di Reggio Emilia per gli imputati nel processo sul femminicidio di Saman Abbas: le ha formulate la pm Laura Galli, al termine della requisitoria dell’accusa, iniziata alle 9.30 del mattino e conclusa alle 19.30. La Procura chiede la condanna per omicidio e soppressione di cadavere, l’assoluzione per il sequestro di persona. Nelle prossime udienze toccherà a parti civili e difese poi, solo al termine, gli imputati, se vorranno, potranno parlare. A Shabbar, che voleva farlo oggi, non è stato consentito.

Durante la requisitoria, il procuratore Gaetano Paci ha parlato di una famiglia dalla struttura simile a quella di una ‘ndrina calabrese e che mai “ha degnato Saman Abbas di una espressione di pietà”. Il pm si è concentrato sulle relazioni in cui era immersa la 18enne uccisa dopo aver rifiutato un matrimonio forzato. “Nessuno”, ha detto il pm, “ha avuto un cedimento a un sentimento di umana pietà verso l’orrore, lo strazio che è stato compiuto a questa ragazza”. Così come “nessuno dei protagonisti di questo processo, a cominciare dal padre, ha voluto degnare questa ragazza di una espressione di pietà, se non strumentale o capziosa”. Il procuratore ha quindi parlato della necessità di una sentenza “che abbia un senso restitutorio dell’oltraggio alla vita che è stato compiuto con questo barbaro e brutale omicidio”.

Paci, che prima di essere nominato capo della Procura reggiana era stato procuratore aggiunto a Reggio Calabria, ha detto che la vicenda ricorda quella di una testimone di giustizia vittima di ‘Ndrangheta: “Maria Concetta Cacciola, costretta dai familiari nel 2011 a ingoiare acido muriatico“. E citando conversazioni successive al femminicidio, con protagonista il padre Shabbar, il pm ha detto che da quei dialoghi “emerge la necessità di mantenere compatto il fronte familiare e parentale”. E questo, ha detto Paci “è esattamente quello che prima dell’omicidio la scelta determinata e testarda di Saman aveva cercato di mettere in crisi. E cioè l’autorevolezza di Shabbar, come membro di una famiglia potente, che possiede tanti terreni in Pakistan, che nel suo villaggio agita il kalashnikov e spara in aria”. E proprio, ha continuato, “la barriera all’anelito di vita di Saman è stato il sistema valoriale della famiglia. ‘Una pazza’, come la definì Nazia, la madre, non poteva permettersi di mettere in discussione l’onorabilità della famiglia. Ma Saman aveva una forza sovversiva che esercitava inconsapevolmente: voleva solo vivere la sua vita, camminare mano nella mano per le strade di Bologna, scambiarsi un bacio”.

Ricostruendo la storia della ragazza uccisa a Novellara, rifacendosi anche alle testimonianze delle assistenti sociali, Paci ha affermato: “Saman in fondo esprime una contraddizione eterna dell’individuo, tra libertà e desiderio di vita e repressione, autoritarismo, soffocamento di ogni desiderio di autonomia”. Nel momento in cui “scappò e andò in Belgio e poi finì in comunità, le assistenti sociali delineano il suo enorme anelito di vita e evidenziano quella che era e rimarrà la grande contraddizione in cui questo anelito di vita si inseriva. Il contrasto con il sistema valoriale della famiglia di appartenenza: perdita di dignità, disonore, trasgressione, repressione”. Un altro elemento che la storia di Saman esprime, ha detto ancora, “è la sofferenza di questa ragazza”. “L’unico riscontro che trovava il suo desiderio di vita in famiglia era repressione, coartazione e la prefigurazione di un percorso esistenziale e predeterminato, un matrimonio con una persona molto più grande di lei in Pakistan, senza poter dar sfogo al proprio anelito di vita”.

Per la morte della 18enne, uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021, sono imputati i genitori, lo zio e due cugini. “Una vicenda terribile, di una tragicità immane” con al centro “il più aberrante e malvagio dei delitti, commesso dai genitori con la collaborazione di altri familiari”. In questo processo, ha aggiunto a fianco della pm titolare dell’indagine Laura Galli, “non c’è la prova regina, del momento in cui viene uccisa e seppellita, ma una pluralità di elementi di prova oggettivi, di varia fonte e provenienza. Noi vogliamo offrire alla Corte una piattaforma indiscutibile”. Quindi ripercorrendo le prove a carico degli imputati, Paci ha aggiunto: “Se lo scavo indiscutibilmente è stato fatto anche con quella pala e quella pala indiscutibilmente è stata trovata a casa dei tre imputati, questa è la firma dell’omicidio”. Il procuratore ha infatti ricordato come la perizia medico legale sullo scavo abbia indicato come per la fossa siano stati utilizzati badili compatibili con quelli trovati a casa dei tre, vicina all’abitazione dove viveva la famiglia Abbas. “Non si è trattato di uno scavo improvvisato, ma ha tenuto conto delle dimensioni di chi doveva ospitare”, ha aggiunto citando sempre la perizia. “La fossa era stata originariamente predisposta e preparata e quando il corpo era pronto per essere depositato ci si è accorti che doveva essere allargato. Saman è stata uccisa, per asfissia generata con un gesto meccanico che ha portato alla rottura della parte sinistra dell’ossoide. I periti hanno indicato come dinamica lo strangolamento o strozzamento, prediligendo la seconda ipotesi: una costrizione con le mani o con altre parti del corpo“.

Il pm ha parlato quindi del ruolo della madre, ancora latitante in Pakistan. “Nel momento in cui il padre e la madre di Saman escono da casa con la ragazza, per l’ultima volta insieme, la madre ferma l’azione del padre e si porta lei da sola davanti alla strada ghiaiata, tenendo il padre fuori dal fuoco del telecamere”. La descrizione di quanto si vede nelle immagini di sorveglianza di Novellara, la sera del 30 aprile 2021, è stata una parte della requisitoria del procuratore. La madre Nazia Shaheen, ha sottolineato il pm, in quel frangente “ferma il marito e va da sola con la figlia, con una impassibilità, una freddezza, una glacialità, una lucida malvagità che non ha eguali”. Quello è, ha aggiunto “l’ultimo momento in cui Saman viene vista in vita, lo sappiamo dagli accertamenti medico legale e archeologico forense”. E infine, per quanto riguarda il fratello, il procuratore lo definisce “una vittima del sistema”, soffermandosi sulla deposizione del giovane, sentito per tre lunghe udienze come testimone. La Corte aveva emesso un’ordinanza dove aveva reso inutilizzabili tutte le dichiarazioni fatte in precedenza dal giovane, all’epoca dei fatti 16enne, dicendo che era potenzialmente indagabile. Ma la Procura per i minori di Bologna nel frattempo ha concluso gli accertamenti, non trovando elementi per accusarlo. “Anche lui – ha ribadito il procuratore Paci in requisitoria – è vittima di una situazione familiare oppressiva e autoritaria, totalmente schiacciato nella sua sua libertà di determinazione”. E in seguito ha fatto “un percorso esistenziale che è passato dall’avversione, prima ad una consapevolezza e poi una condivisione delle scelte della sorella”. “Quello che sosteniamo è che il processo fornisce, prima ancora della sua deposizione, elementi non solo di riscontro alle sue dichiarazioni, ma autonomi”.

Per Paci, “l’enorme contrasto tra le proprie ragioni di vita e il sistema in cui è inserita fa di Saman una figura universale. Assimilabile a tante persone che hanno osato sfidare la cappa opprimente e il dominio della volontà in sistemi valoriali viziati. Mi viene da pensare a Rosalia Pipitone di Palermo o Francesca Bellocco di Rosarno, sono vicende in cui c’è una destabilizzazione di un sistema”. Gli assassini “vanno cercati nella famiglia, non abbiamo bisogno di andare fuori”, ha aggiunto.

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