“Noi palestinesi ci sentiamo disumanizzati e umiliati. È disumano costringere oltre un milione di persone a lasciare da un giorno all’altro le proprie case, la propria vita in poche ore, come Israele ha costretto la popolazione del nord della Striscia di Gaza. Io lavoro da dieci anni nella cooperazione internazionale, ma oggi ho la sensazione che la comunità internazionale abbia abbandonato i palestinesi. Credo in quello che faccio, ma è troppo grande la sensazione che ogni sforzo sia vano”. Queste le parole di Amal Khayal, responsabile CISS per la Striscia di Gaza, tra i cooperanti che sono riusciti una settimana fa ad uscire dal valico di Rafah, tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. Khayal racconta la condizione in cui è costretta a vivere la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, da un mese di nuovo sotto i bombardamenti e sotto l’assedio totale da parte di Israele, in risposta all’attacco subito dai miliziani di Hamas lo scorso 8 ottobre. Non riesce a trattenere la commozione, ricordando come la sua famiglia sia ancora nella Striscia: “L’ultimo pensiero prima di lasciare la mia terra? Stavo immaginando il volto di mia madre, mentre lasciavo Gaza, quello di mio padre. Le loro preghiere le posso sentire ancora nella mia mente. All’inizio non volevo andare via, poi mia madre mi ha insistito perché voleva che almeno uno della famiglia potesse salvarsi, potete immaginare come potesse sentirsi? Sono giorni che cerco di mettermi in contatto con loro, ma non ci sono ancora riuscita”, racconta ai cronisti, nel corso di una conferenza stampa alla Camera, organizzata da AOI (l’associazione delle Ong italiane) e grazie al sostegno della deputata Pd Laura Boldrini.
Khayal contesta la posizione della comunità internazionale e attacca: “Quando sento parlare di diritto umanitario mi viene da ridere, perché è disgustoso quello che stiamo vivendo. La differenza tra il 1948 e ora è solo una: quello che sta succedendo è sotto gli occhi del mondo, possiamo vederlo”, spiega. E ancora: “Nonostante questo non viene fatto nulla. In tutta la mia vita, non ho assistito ad altro che a morte e mancanza di diritti umani. Eppure non è mai bastato l’impegno della mia famiglia per ‘normalizzare la mia identità gazawi’. Noi siamo uguali a voi, gente normale. Stiamo disperatamente cercando di dimostrarlo, ma sembra quasi impossibile farlo”. Accanto a lei in conferenza c’è il marito, Jacopo Intini, anche lui uscito dalla Striscia pochi giorni fa. “Prima di tutto c’è bisogno di un cessate il fuoco, affinché possiamo sapere quanti bambini siano ancora vivi e sapere come stanno, come si sentono”, prosegue la responsabile CISS (Cooperazione internazionale Sud Sud). “Potete percepire quanto sia disumano tutto ciò? Il mio collega Brahim ha dovuto estrarre dalle macerie i suoi nipoti: non posso immaginare se qualcosa del genere accadesse ai miei”, racconta. Per poi ricordare come gli ospedali siano al collasso, senza medicine, né acqua, né possibilità di curare i feriti: “Chi è ancora vivo ha bisogno di essere operato, ma negli ospedali questo non è possibile. I dottori all’ospedale Al Shifa di Gaza stanno dicendo che non hanno più nulla con cui disinfettare le ferite. Non voglio immaginare dopo questa aggressione come staranno i bambini dal punto di vista psicologico”, ha aggiunto.
Anche quando e se verrà raggiunto l’obiettivo del cessate il fuoco, considerato prioritario, la situazione resterà però drammatica: “Tre settimane fa ho lasciato la mia casa, con dentro i miei vestiti, tutto. Ora non so nemmeno se sia ancora lì o sia stata distrutta. Come me ci sono più di un milione di persone nelle stesse condizioni. Dopo che una tregua sarà raggiunta, cosa accadrà, dove andremo? Non riesco nemmeno a immaginare quanto dolore ci sarà comunque”.
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I cooperanti usciti da Gaza: “È una catastrofe umanitaria. Mancano acqua e medicine, rischi sanitari per gli sfollati”

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