di Annalisa Rosiello* e Domenico Tambasco**

Secondo studi clinici e organizzativi recepiti da norme e prassi di riferimento, il carico mentale legato al lavoro è molto influenzato da fattori psico-sociali e da condizioni individuali/soggettive.

In generale, l’adeguatezza di questo carico è la base della corretta organizzazione del lavoro e della puntuale esecuzione dei compiti di ogni lavoratore e – contemporaneamente – può senz’altro essere fonte di benessere e soddisfazione personali; per alcune categorie di lavoratori in condizioni di particolare svantaggio personale, familiare e sociale, però, l’adeguatezza del carico, per essere tale, deve considerare le loro peculiari condizioni, armonizzandosi con esse.

Si pensi a una lavoratrice madre di più figli con differenti esigenze e problematiche; anche se la normativa sta introducendo dei correttivi per incoraggiare la migliore distribuzione dei carichi, sappiamo tuttavia che il “peso” mentale e organizzativo della conciliazione grava ancora oggi prevalentemente sulle donne. O si pensi ai caregiver familiari, per analoghe ragioni. O ai lavoratori in età non più giovane, che possono risultare affaticati da turni, orari o compiti non consoni alle loro condizioni. O ai lavoratori di religione islamica durante il periodo del Ramadan. E gli esempi possono moltiplicarsi, fino ad arrivare alle difficoltà temporanee legate a un lutto, una separazione o un divorzio “complicati”, e così via.

A questo riguardo l’articolo 28 TU 81/2008 stabilisce una valutazione del rischio stress lavoro correlato e un’attività di prevenzione specifica in favore di “gruppi di lavoratori soggetti a rischi particolari”, tra cui i rischi che riguardano le lavoratrici in gravidanza, le differenze di genere, l’età, la provenienza da altri paesi e la specifica tipologia contrattuale.

Alcune norme UNI-ES-ISO (10075-X, 10075-1:2018 e 10075-2:2002) forniscono degli indicatori anche di tipo soggettivo per considerare adeguatamente lo stress e lo strain mentale, al fine di svolgere un’idonea prevenzione dello stress lavoro correlato, così come impone l’art. 28, TU 81/2008 e successive modifiche e integrazioni.

Con riguardo allo specifico aspetto della conciliazione vita-lavoro (ma non solo), la l. 162/2021 – nel modificare l’art. 25 del Codice pari opportunità inquadra nella nozione di discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; ….

Spetta quindi al datore di lavoro in primis, quale responsabile della sicurezza, della salute e della dignità di ogni lavoratore e lavoratrice, nonché alle figure manageriali, della sicurezza e sindacali, operare adeguatamente per tenere in debita considerazione potenziali fattori di rischio aggiuntivi e studiare soluzioni condivise; e questo anche in linea con i principi generali di correttezza e buona fede e del principio stabilito dall’art. 2 della Costituzione (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”).

Sulla stessa linea si pone del resto la più attenta giurisprudenza di merito (Trib. Ferrara, Bighetti est., 25 marzo 2019), che ha qualificato come discriminatoria la condotta dell’azienda che ha applicato i turni standard (ovvero quelli richiesti alla generalità dei lavoratori del negozio) a una lavoratrice con tre figli minorenni di cui uno con disabilità. La sentenza in questione afferma, in particolare, l’esistenza di un obbligo di natura contrattuale a carico del datore di lavoro, che ha il dovere di “armonizzare” le istanze del personale con le esigenze dell’azienda (senza sacrificare in maniera eccessiva l’interesse proprio), ad esempio nella “fissazione dell’orario di lavoro” nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede e in ottemperanza al disposto dell’art. 2 della Costituzione.

Per progettare il lavoro in maniera ottimale è dunque di fondamentale importanza considerare le situazioni individuali che possono ingenerare uno svantaggio. A tale scopo sono di fondamentale importanza figure quali il disability manager o il diversity manager e – dal lato sindacale e degli RLS – persone particolarmente esperte quali i delegati sindacali “sociali”. Si tratta di soggetti che – da ambo i lati (azienda e lavoratori) – sono adeguatamente formati sui temi del disagio, avendo maggiore dimestichezza nella trattazione di queste situazioni ed essendo maggiormente in grado di ricercare adeguate soluzioni.

Da ultimo, è importante che la tematica dello svantaggio personale, familiare e sociale legata al tema della conciliazione e in generale alle tematiche del disagio faccia sempre più ingresso all’interno dei codici di condotta e nei contratti integrativi aziendali. Sappiamo peraltro che – almeno con riguardo al genere – il danno che può crearsi nel caso di vertenze o reclami (in primis la possibile perdita della certificazione) può essere notevole, anche e soprattutto a livello reputazionale.

* La co-autrice dell’articolo è anche curatrice di questo blog. Qui il suo cv

* Avvocato giuslavorista, da anni si occupa di conflittualità lavorativa anche come redattore di diversi ddl in materia presentati nella scorsa legislatura. Autore di pubblicazioni sul tema della violenza e delle molestie lavorative, tra cui “Il lavoro Molesto”, 2021, scritto in collaborazione con Harald Ege.

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