“Mia madre e mio padre hanno tribolato per anni per potermi mettere al mondo. Ci si aspettava che passassi l’infanzia sotto una campana di vetro. Una paura esagerata e il timore dei luoghi aperti hanno creato in me numerose fobie, contro le quali ho combattuto pesanti battaglie fino alla maturità. La professione di poliziotto di mio padre ha contribuito a tutto questo. Raramente era a casa, e quando arrivava l’atmosfera si riempiva di parole nervose e taglienti. L’uniforme blu, sempre appesa alla sedia, mi ha insegnato la lealtà”.

Il ministro, di Stefan Bošković (traduzione di Elvira Mujčić; Bottega Errante Edizioni), è un coinvolgente e riuscito romanzo dai tratti cinematografici che proietta il lettore nella narrazione dei nove giorni in carica del ministro della cultura del Montenegro, Valentino Kovačević, e lo mette davanti alla gestione di ciò che accade nel Paese dopo la morte, accidentale, di un’artista durante una performance. Ne nasce un ritratto veritiero e allucinato, il tratteggio di un protagonista credibile, capace di azioni sconsiderate e alle prese con pressioni politiche, ricatti economici, incomprensioni famigliari. Situazione che creerà un vero Big Bang nella sua testa.

Thriller psicologico e politico, Il ministro è un romanzo lisergico che rimarca le debolezze umane e fa emergere il cinismo, l’ambiguità morale e la crudeltà che permea molti uomini di potere (anche e soprattutto reali). Un libro malinconico e cupo come un noir alla Simenon, psichedelico alla Philip Dick de Le tre stimmate di Palmer Eldritch, ambiguo come il protagonista de Il fosso, di Herman Koch, ma soprattutto capace di far emergere la miseria e l’opulenza della società contemporanea, e i tentativi, spesso squallidi, di rincorrere la tranquillità e il quieto vivere.

“Se osserviamo quelli che camminano da una panchina o dalla finestra, come succedeva spesso un tempo, c’è comunque molto da vedere, e stare inosservati alla finestra a guardare gli altri è un’abitudine tutta di città, solo che oggi quasi più nessuno si affaccia alla finestra”.

Taccuino delle scribacchiature del sud, di Zsuzsanna Gahse (a cura di Paola Celio, Cristina Costantini, Gabriella Motolese, Patrizia Ruth Pancardi, Bettina Ricceri, Stefania Siddu e Anna Ruchat; FT FinisTerrae/Ibis Edizioni), è una sorta di diario con diversi coprotagonisti (l’io narrante, il nonno Endre e Tokoll, un fotografo che assomiglia a Francisco Goya) che si sposta nello spazio e nel tempo analizzando, in brevi e potenti paragrafi, la sociologia della migrazione umana, l’evolversi della lingua, dettagli semidimenticati della Storia.

Passando continuamente tra l’effetto da “vita quotidiana” di questo inusuale prototipo di effemeride, con incursioni nel sud dell’Europa (l‘Andalusia e Granada, il Lago Maggiore, La Mancha, Toledo, Madrid, le Alpi, Bolzano, Budapest, Vienna, Francoforte sul Meno), e domande sul sentirsi o meno in un Paese straniero anche quando si è a casa, l’anonimo narratore (probabilmente di origini ungheresi), trova, nel fotografo Tokoll, un amico con cui rivendicare il frammento narrativo come unica soluzione per raccontare una storia unitaria. Il mondo ricreato in Taccuino delle scribacchiature richiama quello interiore dell’autrice (ungherese che scrive in tedesco e da molti anni risiede in Svizzera), un mondo pieno di profumi e musica, di microstorie intelligenti, divertenti e tristi, intense ed essenziali grazie al linguaggio melodico del testo.

“Io e Honza, uno di fronte all’altra, mettevamo il raccolto nello stesso secchio: io avevo dei vecchi guanti lavorati a maglia mentre Honza rompeva la terra fredda con le mani nude fino ai polsi. Aveva le scarpe da lavoro coperte di argilla viscida. Quel settembre era abbastanza freddo, sopra la maglietta e la blusa mi ero infilata un maglione. Honza aveva il giubbotto da lavoro aperto, il suo alito mi arrivava addosso e sapeva di birra, era accigliato come un diavolo”.

Sangue di pesce, di Jirí Hájícek (traduzione di Angela Zavettieri; Keller Editore), è una indimenticabile storia sulla perdita delle proprie radici, sui rapporti familiari lacerati e sull’apparente fallimentare lotta contro la costruzione di una centrale nucleare. Siamo nella campagna della Boemia meridionale a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, la perestrojka impazza in tutto l’est-Europa, ma le ottusità del regime non danno segni di cedimento. Dopo quindici anni trascorsi all’estero Hana torna nel villaggio semiallagato e spopolato sulle rive della Moldava dove è cresciuta, e qui dovrà mettere in campo tutto il suo coraggio interiore per rinsaldare i legami con il passato, comprendere cosa tenersi dentro e cosa no.

Sangue di pesce è principalmente la storia della disintegrazione di una famiglia e di un villaggio per far posto a una centrale nucleare, tema senz’altro attuale, ma è anche un romanzo riuscito sull’amore, il perdono e il bisogno umano di affetto e protezione.

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