Cinquant’anni fa usciva l’album Sulle corde di Aries di Franco Battiato. Terzo album, per l’esattezza, dopo Fetus e Pollution, prove incerte e ingenue nel campo di un rock elettronico non privo comunque di fascino. La svolta che porta Battiato verso una immediata maturazione deriva dalla necessità di depurarsi dalle frequenze violente del suono prodotto dal sintetizzatore e dagli strumenti elettrici durante i concerti insieme alla sua band di accompagnamento. Una sorta di saturazione auricolare e spirituale, un esaurimento psichico e di una fase musicale che lo porta in un pellegrinaggio artistico a New York per entrare a contatto con la musica minimalista di Terry Riley, Steve Reich, Philip Glass, ma sempre con un occhio puntato verso la scena musicale tedesca, a tratti violenta nella sua versione rock quanto meditativa e profondamente spirituale nella sua versione cosmica e acustica.

Battiato, depurato, confeziona uno dei suoi album migliori di sempre inaugurando il filone dei testi autobiografici legati a temi come la memoria, l’infanzia, la Storia, che rimarranno sottotraccia per la sua intera carriera. Nel disco l’elettronica, rappresentata dal sintetizzatore VCS3, meno intuitivo nell’utilizzo rispetto al Moog ma più performante, si alterna agli strumenti acustici spesso tradizionali per lunghe cavalcate dai ritmi pulsanti delle tablas (Sequenze e Frequenze) o momenti jazz sassofonistici (Aria di Rivoluzione).

È insomma l’album più sinceramente musicale fino ad allora, che abbandona momenti di comicità involontaria dei testi dei dischi precedenti, con la recitazione di formule matematiche e brani di ingegneria idraulica, pianti sommessi o interrogativi cosmico esistenziali, interrompe il flirt con il rock progressivo e gli sprazzi collagistici per un più immersivo e impegnativo studio del suono.

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