di Paolo Pastres

Ho trovato stimolante e interessante l’articolo di Tomaso Montanari “La meritocrazia è un totem che colpevolizza la povertà”, pubblicato sul Fatto del 2 ottobre. In relazione a tale lavoro, che consiglio comunque di leggere, vi sono a mio giudizio alcune considerazioni da fare. Intanto sul concetto di “merito”, da cui deriva quello di “meritocrazia”, termine importato dagli Stati Uniti negli anni 70.

Secondo la Treccani, il “merito” ha una connotazione prettamente morale: si tratta del diritto ad essere riconosciuto o premiato in relazione ad un bene compiuto sulla base di principi etici. Il concetto di principio etico in realtà varia e dipende dal contesto sociale e dall’insieme di norme, esplicite e implicite, su cui si basa. L’etica per Hitler aveva un valore differente rispetto ad una società odierna che trovi il proprio fondamento nella democrazia. Dunque è il contesto sociale, con le sue organizzazioni, ad istituire chi giudica il merito delle persone, conferendo a chi giudica una veste tanto più autorevole quanto più è posizionato in alto rispetto all’organizzazione sociale. In termini più semplici, ciò significa che il concetto di “merito” non può sussistere senza qualcuno che lo giudichi e ciò presuppone un’organizzazione sociale di tipo gerarchico.

La questione che si pone, a questo punto, è quella di stabilire quali siano i criteri (o le leggi morali) su cui si conforma il giudizio sul “merito” di qualcuno. Per complicare le cose, possiamo anche dire che in genere i criteri espliciti possono essere soverchiati da quelli impliciti. Tanto per dire, un Presidente del Consiglio può nominare un ministro una persona, non tanto sulla base delle competenze specifiche di tale persona (criterio esplicito), ma perché quella persona è giudicata dal Premier come una sua affiliata (magari perché gli è parente) e dunque fidata e controllabile (criterio implicito). Quindi è importante che i criteri, attraverso cui si stabilisce un giudizio sul “merito” rispetto a qualcosa, siano il più possibile espliciti e chiari e gli stessi per tutte le situazioni analoghe.

Nella realtà, nella nostra organizzazione sociale, i criteri di attribuzione del merito non sono mai espliciti e, se lo sono, vengono subissati da altri impliciti e mai pubblicamente dichiarati.
Tuttavia, ritengo che sia piuttosto arduo per un tessuto sociale reggersi senza valutazioni sul merito, in quanto esse, nel bene o nel male, svolgono comunque un ruolo educativo, cioè rappresentano per gli individui un modello di comportamento per giungere ad essere “meritevoli”.

E’ importante, a mio parere, che i parametri attraverso cui viene giudicato “il merito” siano chiari ed espliciti e validi per tutti. Per fare ciò, è necessario dirimere il giudizio sul merito da quello sulle competenze. Il termine “competenza” attiene alla caratteristica “propria di colui che dimostra di saper svolgere in modo adeguato una certa attività, un certo compito” (Zanichelli). Quindi il concetto di “competenza” implica una conoscenza ed esperienza attinenti al compito da svolgere. A differenza del “merito”, la valutazione della “competenza” non ha una connotazione di tipo etico o morale, bensì si basa sulla capacità a svolgere un certo compito o azione e quindi a conseguirne gli obiettivi.

Oggi è diffusa la confusione fra “merito” e “competenza”, quando in realtà dalla “competenza” può derivare “un merito”, mentre da “un merito” non è detto che derivi “una competenza”, ma piuttosto “un’utilità”. Come dire che anche l’essere “un utile idiota” di qualcuno può costituire un merito.

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