In Spagna, ad oltre tre mesi dalle elezioni, la formazione di un governo è in alto mare. Ritardo che attesta, una volta di più, come il sistema politico sia bloccato da anni. Due i motivi: l’ingranaggio elettorale – il proporzionale puro – fonte negli anni di una profonda instabilità, con i due grandi partiti, Populares e socialisti, spesso equivalenti nei numeri che riscontrano non poche difficoltà nella costruzione di un solido esecutivo. E poi la mancanza, oramai cronica, di cultura al dialogo e al negoziato politico.

Una democrazia parlamentare che per circa 30 anni ha visto il Partido Socialista Obrero Español (PSOE) e il Partido Popular governare quasi in solitudine ha favorito la riduzione dello spazio a quei buoni accordi che lasciano nell’aria l’impressione di vedere usciti tutti vincitori. È già accaduto pochi anni fa, nel 2016, con oltre 300 giorni senza un governo, così la locuzione “presidente en funciones” è divenuta abituale nella politica spagnola. Ancora attuale ora che il socialista Pedro Sánchez si ritrova capo di un esecutivo chiamato a svolgere solo attività di ordinaria amministrazione.

In un sistema così fragile trovano gioco facile le formazioni minori, bastano pochi seggi per condizionare governi e per disegnare rotte per la politica e la cultura del paese. Lo sapeva bene Jordi Pujol, storico leader dell’autonomismo catalano che con i pochi seggi di Convergència determinava maggioranze influenzando pesantemente, a seconda della direzione dei venti, governi moderati o progressisti. È sulla base di quello schema che Madrid, a partire dalla metà degli anni 80, ha ceduto metri al ‘catalanismo’, e poi spazi più grandi fino a vedere affermato un autogoverno regionale che è arrivato a mettere all’angolo l’uso della lingua castigliana e a creare rappresentanze (para)diplomatiche all’estero.

Jordi Pujol è da tempo fuori dai giochi, oggi ultranovantenne regge su spalle stanche il peso di accuse di corruzione per i membri della famiglia. Rimane la sua traccia politica, una dottrina abile e astuta che, come amava ripetere, tendeva al raggiungimento di un’autonomia con qualità sociale e una forte identità, riconoscibile in Spagna e all’estero, con la forza dei numeri a Barcellona e gran peso da esercitare a Madrid. È quanto accade anche oggi, con la variante che l’agognata autonomia ha preso una deriva indipendentista.

In queste settimane sono ancora le formazioni catalane, Esquerra e Junts, a porsi al centro della scena, la ‘incomunicación’ tra popolari e socialisti ha fatto alzare la posta agli indipendentisti. Il loro appoggio a Pedro Sánchez, quale incaricato dal re Felipe VI dopo il fallimento del moderato Alberto Núñez Feijóo, è condizionato alla concessione dell’amnistia per i leader condannati per il referendum illegale del 1 ottobre 2017. A quella prima richiesta se ne sono presto aggiunte altre, in primis una riforma costituzionale che consenta la celebrazione di una consultazione sull’indipendenza solo su base regionale.

Più per esigenze di potere che per convinzione, i socialisti cederanno sull’amnistia malgrado la ferma opposizione interna di Felipe González e Alfonso Guerra, due pilastri della sinistra spagnola. Alla politica spagnola ‘manca finezza’ avrebbe detto Giulio Andreotti in una visita in Spagna al principio degli anni 90, giudizio tagliente sulla poca capacità di imbastire dialoghi tra formazioni politiche contrapposte. Ma l’impressione è che la (presunta) poca finezza di Madrid sia compensata dalla ‘dottrina Barcellona’.

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