Nella primavera del 2020, in piena pandemia, le assemblee degli azionisti sono state trasferite online, in una forma che, pur garantendo il diritto di voto, annullava la possibilità di interventi e interlocuzione degli azionisti con il management. Se la decisione allora era giustificata dall’emergenza sanitaria, è lecito chiedersi per quale motivo oggi, per il quinto anno consecutivo, ci sia chi ancora preme per mantenere le assemblee a porte chiuse.

Per capirlo, vale forse la pena di raccontare che cosa avveniva nelle assemblee, quando ancora gli azionisti vi potevano partecipare. Io ne ho frequentate alcune da studiosa, su suggerimento dell’amministratore delegato di una delle più importanti aziende italiane che, intervistato per una mia ricerca, mi aveva detto “si compri un’azione e venga in assemblea, ne vedrà delle belle”. E sì, ammetto di averne viste delle belle.

Di investitori istituzionali, di fondi di investimento, neanche l’ombra. Sembra un paradosso, questa invisibilità, in un regime di accumulazione in cui le aziende sono disegnate per massimizzare il valore per gli azionisti. Ma per questi soggetti il management organizza da sempre incontri riservati e il voto veniva già espresso per delega, attraverso studi legali specializzati. Se ne occupavano, in assemblea, i proxy voting agent: un’etichetta altisonante per indicare i giovanissimi praticanti che, spesso visibilmente agitati, al momento della votazione in sala consultavano gli stampati che avevano tenuto stretti tutto il giorno ed esprimevano voti per milioni di euro (tra l’altro, lo sapevate che in Italia questa attività è gestita in buona parte da un unico studio legale milanese, che nel 2022 ha votato per conto di migliaia di investitori istituzionali in oltre 450 diverse assemblee?).

A esercitare il diritto di intervento pre-voto erano invece quasi sempre piccolissimi azionisti, che forti di qualche decina o centinaia di azioni potevano interloquire per qualche minuto direttamente con l’amministratore delegato o il presidente della società. Per dire cosa? Ho ascoltato analisi economico-finanziarie e geopolitiche, alcune raffinate e molte improbabili; amarcord dei bei tempi (societari) andati da parte di chi quelle azioni la aveva da decenni, o magari di quella azienda era stato dipendente tutta la vita; richieste di selfie e ammiccamenti. Di molti interventi non era facile cogliere senso e obiettivi: qualcuno probabilmente era lì alla ricerca dei 15 minuti di notorietà profetizzati da Warhol; altri forse erano semplici disturbatori o addirittura – se ne parlava durante il ricco buffet – emuli dei ricattatori che un tempo tenevano le assemblee in ostaggio per ore con i loro interventi, facendo intravedere la possibilità di tacere all’istante, non appena la società si fosse mostrata interessata a entrare in (piccoli) affari con loro.

Il clima in sala, per buona parte del tempo, era insomma più da sagra della porchetta che da stanza dei bottoni. Il management societario di solito mostrava una rassegnata e bonaria sopportazione, anche se in alcuni casi traspariva una certa insofferenza. Gli unici momenti in cui davvero ho registrato un cambio di tono, con gli amministratori delegati che si facevano ostili, coincidevano con gli interventi dei cosiddetti azionisti critici: rappresentanti di organizzazioni no profit che, acquisita una manciata di azioni di società con impatti sociali e ambientali negativi, utilizzavano strumentalmente lo spazio dell’assemblea per “dirgliene quattro”.

Da una parte, dunque, perditempo, dall’altra voci aspramente critiche. Stando così le cose, non stupisce che le società abbiano salutato con favore la modalità assembleare inaugurata in pandemia, che elimina gli interventi, e non è difficile immaginare che qualcuno si stia spendendo per mantenerla così. Eppure un orientamento di questo tipo, oltre a essere lesivo dei diritti degli azionisti, come ha sottolineato Consob in audizione al Senato, mostra anche di essere miope rispetto al contributo che l’azionariato critico può apportare in assemblea.

Basta andare a spulciare i verbali assembleari pre-2020 per accorgersene. Negli ultimi anni la strategia delle associazioni si era profondamente modificata. Dagli interventi tutti giocati sul piano etico-morale, “da movimentisti un po’ idealisti”, come mi ha detto un intervistato, che di fatto creavano un muro con il management, si era passati a interventi frutto di studi e di analisi di mesi, fatti “con il cappello dell’azionista”, che riflettevano su come generare valore in modo sostenibile.

Insomma, grazie all’azionariato critico le assemblee si stavano lentamente ridisegnando come un momento di confronto vero tra portatori di interessi diversi, a volte anche a vantaggio delle società stesse. Il manager di uno dei principali gruppi industriali italiani mi ha confessato che, in alcuni casi, i suggerimenti ricevuti dalle associazioni di azionariato critico erano così precisi e fondati da poter essere implementati direttamente in azienda: “ci hanno dato delle consulenze gratis in sostanza”. Ma dialogare con chi la pensa diversamente è sempre faticoso e, se lo spazio di confronto/scontro che si era venuto a creare si può sopprimere, tirando dritti per la propria strada, perché non farlo? Perché mai tornare alle assemblee in presenza?

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