A tre anni dal Covid, che paralizzò gli ospedali, i ricoveri per infarto acuto del miocardio anche nel 2022 si sono fermati a meno 6,5% dal dato atteso, ne mancano circa 7.400: nel 2020 e nel 2021 era andata peggio, ma è chiaro che anche l’anno scorso alcuni infarti non hanno ricevuto cure adeguate con tutto quello che significa. Anche gli interventi di bypass aortico-coronarico sono stati il 10% in meno. La tempestività degli interventi di angioplastica a seguito di infarto, nel 2022, è aumentata di appena un punto percentuale rispetto al 2021, segnato dall’emergenza pandemica: nel 43% dei casi, poco meno di uno su due, l’intervento non è stato eseguito nei 90 minuti previsti dai protocolli, con una mortalità a 30 giorni del 7,7% lievemente superiore al dato atteso (7%) benché ovviamente inferiore all’8,4% del 2020. Per le donne la percentuale di ritardo, che ovviamente aumenta il rischio di mortalità, è superiore a quella degli uomini, come peraltro già rilevato in passato: 57% contro 46%.

Sono alcuni dei dati più inquietanti che emergono dall’Edizione 2023 del Programma Nazionale Esiti (Pne), realizzato dall’Agenas (l’Agenzia per i servizi sanitari regionali) per conto del ministero della Salute. È il rapporto annuale che monitora i risultati di oltre 1.400 ospedali di tutta Italia, pubblici e privati, in alcune aree cruciali come appunto quella cardiovascolare che in Italia fa 230-250 morti su 700 mila. È bene ricordare che solo pochi mesi fa i vertici della Società italiana di cardiologia, di fronte al vistoso calo di visite ed esami diagnostici, denunciavano che “la mortalità da infarto e ictus rischia di tornare ai livelli di 20 anni fa”. Sapevamo già che l’attività ambulatoriale nel complesso del Servizio sanitario nazionale, nel 2022, non è tornata ai livelli del 2019 prepandemico salvo in Toscana, con crolli fino al 40% in alcune Regioni: cioè diminuiscono le prestazioni mentre si allungano i tempi, come ci dicono le liste d’attesa interminabili del Servizio sanitario nazionale. Sapevamo che i tempi di attesa si allungano anche per le chirurgie. Ora sappiamo che negli ospedali, compresi quelli privati, è andata solo un po’ meglio: “I dati del rapporto – scrive Agenas – evidenziano come il 2022 sia stato un anno caratterizzato da una significativa ripresa delle attività, che ha fatto registrare un aumento dei ricoveri rispetto al 2021 (+328 mila). È inoltre proseguito il riavvicinamento dei volumi ai livelli prepandemici soprattutto per l’attività programmata e per quella diurna, sebbene persista una riduzione del 10% rispetto al 2019”. Dieci per cento in meno, uno su dieci, è un’enormità. “Complessivamente, nel triennio 2020-2022 la riduzione dell’attività ospedaliera stimata sui volumi del 2019 è stata pari a 3 milioni e 800 mila ricoveri”.

Dice il presidente di Agenas Enrico Coscioni: “Per le attività programmate, il gap sui livelli prepandemici si è ridotto da -25% nel 2020 a -16% nel 2021, fino a -9% nel 2022”, mentre il direttore Domenico Mantoan “richiama il rigore metodologico” del Pne che “garantisce dati sempre più attendibili”. Non sembra, tuttavia, che alle criticità evidenziate da Agenas corrispondano risorse e politiche adeguate da parte del governo e di gran parte delle Regioni. Alla presentazione del rapporto Giovanni Migliore, presidente della Fiaso che è la Federazione delle aziende ospedaliere pubbliche e private, ha sottolineato che “occorre sostituire il tetto di spesa sul personale, fermo al 2004, con strumenti che consentano effettivamente al management di valorizzare la qualità dei professionisti”. Contro il tetto di spesa sono schierati anche i sindacati, per quanto poi la qualità delle cure sia “evidentemente anche una questione di management”, come ha ricordato Mantoan.

Per l’efficienza dell’area cardiovascolare vince l’ospedale Careggi di Firenze, anzi è “l’unica struttura che raggiunge un livello di qualità molto alto” per dirla con Agenas, mentre “17 strutture raggiungono un livello di qualità alto”: sono l’Ospedale Mauriziano Umberto I di Torino, l’Humanitas Gavazzeni di Bergamo, la Fondazione Poliambulanza di Brescia, il Centro Cardiologico Fondazione Monzino di Milano, il San Raffaele di Milano, l’Humanitas di Rozzano (Milano), l’Ospedale di Treviso, l’Ospedale di Mestre, Ospedale di Vicenza, il Cattinara e Maggiore di Trieste, il Santa Maria della Misericordia di Udine, il Sant’Orsola di Bologna, l’Umberto I-Lancisi di Ancona, il Gemelli di Roma, il Policlinico Tor Vergata di Roma, il SS. Annunziata (Chieti), il San Giovanni di Dio-Ruggi D’Aragona di Salerno. Sei su 18 sono privati, salvo i due romani solo due si trovano nel centro-sud e neppure uno a sud di Salerno o nelle isole. Peraltro, rileva Agenas, su 562 centri in valutazione per l’area cardiovascolare “sono solo 55 le strutture con tutti e sei gli indicatori calcolabili”. Nel complesso, considerando tutti gli indicatori del Pne, gli ospedali migliori d’Italia risultano essere l’Humanitas di Rozzano (pubblica) e l’Azienda ospedaliero universitaria delle Marche di Ancona (pubblica). Ci sono anche gli otto peggiori, ma non li hanno resi pubblici. Li invieranno al tavolo sui Lea (Livelli essenziali di assistenza): “Ci si deve porre il tema di una serie di ospedali del nostro Paese dove la qualità delle cure è molto bassa. Quindi vanno fatte politiche di accompagnamento, di audit, di verifiche”, dice Mantoan. Ad ogni modo le differenze regionali aumentano, rileva Agenas: fa paura solo pensare a cosa accadrà con l’autonomia differenziata.

Nella chirurgia oncologica il recupero verso i livelli pre-Covid sembra andare meglio, almeno per gli indicatori considerati tra cui però non ci sono i tempi d’attesa: gli interventi per tumore alla mammella, ad esempio, sono risaliti sopra il dato 2019 e cresce la percentuale di quelli effettuati nelle strutture più grandi. Migliorano i dati medi sulla mortalità a 30 giorni dagli interventi per tumori al polmone e al colon. Qui i centri più validi risultano essere ancora l’ospedale di Mestre, l’Azienda Ospedale Università di Padova, ancora l’Umberto I-Lancisi di Ancona e ancora il Gemelli (Roma).

Quanto all’area perinatale, c’è una buona notizia: “In Italia, il numero di parti si è progressivamente ridotto nel corso del tempo (circa 68 mila parti in meno nel 2019 rispetto al 2015) – si legge nella sintesi di Agenas­. Durante la pandemia, a partire dal 2021, si è registrata un’attenuazione del trend, con un incremento del 2,7% nel 2021 e del 6,0% nel 2022 rispetto all’atteso, pari a 32.500 ricoveri in più per parto nel biennio 2021-2022”. Altre notizie sono meno buone: aumentano i punti nascita sotto soglia (e quindi destinati alla chiusura) e soprattutto, in tema di parti cesarei, “si è registrata una battuta d’arresto nel trend di decrescita, con una percentuale in leggera risalita (23%), ai livelli del 2017”. Peraltro, aggiunge Agenas, “la gran parte delle regioni del Sud ha fatto registrare nel 2022 valori mediani di taglio cesareo superiori al dato nazionale. Si registra anche una spiccata variabilità intra-regionale, con strutture che superano il 40% in Campania, Sicilia, Lombardia, Puglia e Lazio”. Per l’area perinatale, su 342 strutture con dati completi, 50 aggiungono un livello di qualità molto alto: “La Regione che presenta la proporzione più alta di strutture con livello di qualità molto alto è l’Emilia-Romagna (11 strutture su 17, pari al 65%). In 9 Regioni, nessuna struttura raggiunge un livello di qualità molto alto: Valle d’Aosta, Liguria, Lazio, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna”.

C’è infine l’area muscolo-scheletrica e Agenas rileva, nel 2022, il “completo riallineamento dei volumi al trend pandemico” per gli interventi di protesi d’anca e un miglioramento della tempestività (entro 48 ore) degli interventi per frattura del femore negli over 65, che però resta sotto il 60% in gran parte delle strutture, con punte negative al 10%, e mediamente favorisce le donne rispetto agli uomini (51% di interventi tempestivi contro il 46%). Il Pne fotografa anche la quasi completa consegna al privato convenzionato degli interventi di protesi del ginocchio (dal 70% del 2018 al 78% nel 2022) e di protesi della spalla (dal 57% nel 2018 al 74% nel 2022).

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