di Domenico Tambasco *

Può essere licenziato il dipendente privo di autocontrollo con i clienti a causa dell’ambiente lavorativo stressogeno? La risposta a questa domanda è stata recentemente fornita da un’innovativa ed equilibrata pronuncia del Tribunale di Cremona (sezione lavoro, ordinanza 3 ottobre 2023), che ha annullato il licenziamento disciplinare per giusta causa irrogato da un noto istituto di credito. Il caso ha come protagonista un bancario il quale, relegato alle mansioni di cassiere dopo una brillante carriera di circa trent’anni ed esposto a condizioni di lavoro obiettivamente stressogene, iniziava a patire serie difficoltà nel relazionarsi con i clienti, che si sostanziavano non di rado in reazioni “impulsive” e poco consone al proprio ruolo lavorativo.

Il giudice, a seguito di un’attenta e scrupolosa analisi della documentazione depositata in atti, pur accertando le condotte censurate dalla banca come disciplinarmente rilevanti e non conformi al “minimum etico” a cui si deve sempre conformare ogni prestazione lavorativa, ha però ritenuto sproporzionata la risposta sanzionatoria del licenziamento considerando proprio “il nocivo contesto lavorativo in cui si trovava ad operare” il bancario.

Più precisamente nell’ordinanza in commento, ai fini del giudizio di proporzionalità, viene presa in considerazione:
1) la conoscenza da parte della società datrice del costante malessere del lavoratore, denunciato da oltre sei anni nelle schede di valutazione annuali dal dipendente che, dopo un lungo percorso professionale, si era visto relegato alle mansioni di cassiere, tornando così al “punto zero” della propria carriera;
2) la consapevolezza, da parte della Banca, della condizione di stress in cui versava il dipendente a causa del continuo mutamento di mansioni e dei plurimi trasferimenti di sede;
3) la conoscenza, da parte dell’istituto di credito, delle difficoltà del lavoratore a relazionarsi con i clienti a causa di tali condizioni di stress, risultanti sia da una mail inviata dallo stesso bancario al proprio superiore gerarchico, sia da una dichiarazione del direttore di filiale;
4) l’eccezionalità degli episodi di intemperanza assunti nei confronti dei clienti da parte del dipendente, mai verificatisi nell’arco di 28 anni di rapporto lavorativo.
Questi quattro elementi hanno consentito di fissare in modo ponderato le “coordinate” della decisione, che pone al centro i) la sussistenza di un ambiente lavorativo obiettivamente stressogeno; ii) la colpevole inerzia del datore di lavoro; iii) la mancanza di recidiva specifica del dipendente.

E’ una decisione innovativa perché, invece di limitarsi all’esame della condotta individuale (sussiste/non sussiste il singolo addebito disciplinare), ha ampliato la propria visione alle “condizioni di contesto lavorativo”, che spesso condizionano (determinandole) le reazioni del singolo, richiamando ai propri specifici doveri il datore di lavoro il quale, ai sensi dell’art. 2087 del codice civile, non può chiudersi in un “religioso silenzio” (come nel caso in questione) ma, al contrario, deve porre in essere tutte le cautele e le misure necessarie a tutelare la salute del lavoratore. Salute che, lo ricordiamo, nel nostro ordinamento è intesa come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o di infermità” (art. 2 d.lgs. 81/2008).

Pur nella sua singolarità, la pronuncia del Tribunale di Cremona non è isolata, collocandosi all’interno di un filone giurisprudenziale di legittimità che, di recente, ha iniziato a riconoscere la responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 2087 c.c. del datore di lavoro che “consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (Cass., sez. lav., 7 febbraio 2023, n. 3692; conf., Cass., sez. lav., 31 luglio 2023, n. 23216; Cass., sez. lav., 30 novembre 2022, n.35235; Cass., sez. lav., 15 novembre 2022, n. 33639; Cass., sez. lav., 11 novembre 2022, n. 33428).

Si tratta di un orientamento, seguito anche da diversi giudici di merito (cfr. Trib. Torino, sez. lav., 17 agosto 2022, n. 908; Trib. Firenze, sez. lav., 13 luglio 2022; Trib. Roma, sez. lav., 1° giugno 2022, n. 5259; Trib. Reggio Emilia, sez. lav., 4 novembre 2016, n. 248), volto a valorizzare i fattori organizzativi che, di norma, determinano le condotte individuali, avendo quale fulcro l’analisi dei profili strutturali insiti nell’organizzazione dei fattori produttivi. In questa nuova prospettiva, ecco che acquistano rilievo le disfunzioni organizzative sia rispetto alla prestazione lavorativa (es. superlavoro, usura psico-fisica, dequalificazione, omessa organizzazione logistica degli spazi e degli strumenti di lavoro, mancata conciliazione vita-lavoro), sia nei rapporti interpersonali (violenze e molestie sul lavoro quali il mobbing, il work stalking, il bullying, le molestie sessuali, le violenze fisiche etc.).

* Avvocato giuslavorista, da anni si occupa di conflittualità lavorativa anche come redattore di diversi ddl in materia presentati nella scorsa legislatura. Autore di pubblicazioni sul tema della violenza e delle molestie lavorative, tra cui “Il lavoro Molesto”, 2021, scritto in collaborazione con Harald Ege.

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