Uno dei metodi più utilizzati nella lettura, interpretazione e contestualizzazione di un testo letterario da parte di un lettore specialista è quello dell’intertestualità: si tratta di riconoscere e ricostruire la rete di relazioni che quel testo intrattiene non solo con i suoi possibili modelli letterari, di epoche precedenti oppure coevi, ma anche con gli altri testi dello stesso autore. Per farlo, il lettore guarderà tanto alla scelta dei temi trattati e al modo di narrare, quanto, più nel piccolo, a quelle caratteristiche che fanno lo stile di ciascun autore, il suo DNA professionale – l’uso ricorrente e caratterizzato di certi stilemi o perfino parole, un certo modo di costruire la frase o di utilizzare una certa figura retorica. Alla fine di questa analisi qualitativa, il lettore potrà descrivere con accuratezza la fisionomia di quell’autore, potrà dire quali sono i modelli a cui si ispira e viceversa sarà in grado di riconoscerlo come modello ispiratore di altri scrittori.

Il caso che ormai da un paio di settimane vede coinvolta la scrittrice svedese Camilla Läckberg – giallista da 30 milioni di copie vendute in tutto il mondo (in Italia è pubblicata da Marsilio), salita alla ribalta con la fortunatissima serie dei “gialli di Fjällbacka” –, ha a che fare piuttosto da vicino con la questione dell’intertestualità: stavolta però a condurre l’analisi non è stato un lettore – il giornalista Lapo Lappin, che lavora per la testata online Kvartal –, ma un programma di intelligenza artificiale al quale Lappin ha affidato l’analisi stilometrica dei romanzi di Läckberg – cioè un’analisi quantitativa dei tratti stilistici che definiscono un autore, e che in questo caso ha individuato caratteristiche diverse tra la serie di Fjällbacka e i più recenti La gabbia dorata (2019) e Ali d’argento (2020). La riprova è poi venuta da un altro programma (JGAAP – Java Graphical Authorship Attribution Program) che ha proposto, per questi due titoli e per l’ultimo Donne senza pietà (2021), il nome di Pascal Engman, l’editor di Läckberg alla casa editrice Forum.

L’operazione di Lappin – che nel panorama letterario svedese (e non solo) ha avuto una tale risonanza da approdare sull’agenda della fiera del libro di Göteborg – solleva domande che vanno ben oltre il caso Läckberg e lo “scandalo” ad esso legato, a cominciare dalla questione del grado di affidabilità dell’intelligenza artificiale. Anche al di là della smentita dell’autrice e dello stesso presunto ghostwriter Engman, ci si può chiedere se davvero non ci sia un altro modo possibile e legittimo per interpretare i risultati di JGAAP: se è vero che il lavoro dell’editor è quello di affiancare l’autore nel processo creativo della scrittura, nella ricerca dello stile, nella messa in moto della macchina narrativa, allora si può davvero escludere del tutto che l’uno interiorizzi e faccia propri tratti salienti dello stile dell’altro? Insomma, è davvero possibile escludere di trovarsi davanti a un caso di intertestualità interna, cioè allo stile di un autore che muta nel tempo per influsso costante e ravvicinato di un modello?

E da qui fino a chiedersi cosa sia l’autorialità il passo è breve: è un concetto da interpretare in termini di “bianco o nero” – una serie definita di tratti stilistici identifica in maniera univoca un autore, e solo quell’autore – o non piuttosto nei termini di un gradiente? È così in effetti nel caso dello statunitense James Patterson, tra i maggiori autori di thriller di oggi, che è solito collaborare con altri colleghi – capita ad esempio che Patterson metta giù la trama, e sia qualcun altro a realizzarla con le parole: il tutto, però, è apertamente riconosciuto dallo scrittore, e i suoi ghostwriters non restano nell’anonimato. Certo, c’è da dire che la strategia di Patterson non è legata – o almeno non direttamente – alla ricerca di un nuovo modello di autorialità, ma risponde in primo luogo a esigenze di mercato, cioè serve per poter mantenere alti e costanti i ritmi di scrittura e di pubblicazione. Anche il pubblico dei lettori, infatti, gioca un ruolo non secondario nello scenario che il “caso Läckberg” ha contribuito ad aprire: è giusto che il lettore, e specialmente il lettore che si è affezionato a uno scrittore, legga qualcosa che non è (o non è interamente) uscito dalla sua penna? O è giusto solo se e quando il contributo di un altro o di altri autori venga espressamente riconosciuto?

È senz’altro questa l’opinione di Läckberg, secondo cui “uno scrittore deve essere prima di tutto un narratore”. Insomma, quello che conta è il risultato, il prodotto finito che andrà nelle mani del lettore, piuttosto che il modo in cui si attua il processo creativo. Ma allora dobbiamo poter immaginare un giallo scritto interamente da un programma? Quel che è certo è che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ci sollecita al punto da porci domande del tutto nuove sul rapporto tra l’arte e il mestiere dello scrivere, e sul futuro di un’esperienza così quotidiana per tutti noi qual è la narrativa di intrattenimento.

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