Se la regina d’Inghilterra era Pelé, passaggio famoso di Giulio Cesare di Antonello Venditti, il re era, ed è stato sicuramente, Bobby Charlton, scomparso all’età di 86 anni, leggenda del calcio inglese. Il fuoriclasse vissuto due volte: sopravvissuto al disastro aereo che decimò il 6 febbraio 1958 il Manchester United di Matt Busby, superato il trauma e le ferite della sciagura di Monaco di Baviera, iniziò l’esistenza che lo portò al titolo di campione del mondo nel 1966, alla conquista della Coppa dei Campioni nel 1968, al trionfo in tre campionati e in una FA Cup, all’assegnazione del Pallone d’Oro edizione 1966, ad una storia epica con i Red Devils e la nazionale. Numeri da signore del calcio: 758 presenze e 249 gol con lo United, 106 maglie e 49 reti in nazionale. Diciassette anni con i Red Devils, dal 1956 al 1973: un inno alla fedeltà. Chiuse la carriera al Waterford nel 1974 in Irlanda, dove il fratello Jack, difensore, ribattezzato la “giraffa” avrebbe scritto nel ruolo di ct le pagine più importanti del football dell’isola verde.

Charlton è stato il miglior talento espresso dal calcio inglese di tutti i tempi: classe, forza fisica, senso del gol, personalità. Il suo capolavoro è la semifinale mondiale contro il Portogallo di Eusebio. La “pantera nera” era stato fino a quel 26 luglio 1966 la star del torneo, ma Wembley quel pomeriggio fu illuminato da un gigantesco Bobby Charlton, leader di una squadra in cui Bobby Stiles era il mediano cattivo, Geoffrey Hurst il centravanti che firmò tre gol nella finale con la Germania e Gordon Banks il portiere iconico. Gli strappi e gli allunghi di Jude Bellingham, fuoriclasse inglese dei nostri tempi, sono in pieno stile Charlton, bravissimo negli inserimenti e nelle avanzate coast to coast. Era ambidestro, dote che gli permetteva di disorientare gli avversari: non sapevano mai dove andare a parare. Tiro potente, abilità nel colpo di testa, personalità, corsa perpetua: potrebbe giocare anche nel football di oggi.

Il post carriera è stato sicuramente meno esplosivo. Due episodiche esperienze da allenatore con Preston e Wigan, poi il passo indietro. Charlton si dedicò al culto di se stesso e ad un ruolo di consigliere nel board del Manchester United. Ha seguito i Red Devils nel suo posto in tribuna all’Old Trafford fino all’insorgere della malattia, nel 2020, la demenza senile, che già aveva ucciso il fratello Jack. La famiglia Charlton ha rappresentato una dinastia nel calcio, attraverso il ramo della madre Elizabeth – il papà Robert aveva bruciato i polmoni lavorando nelle miniere -: cinque zii professionisti. Bobby è stato però di “altro” e “alto” livello.

La tragedia di Monaco di Baviera rese l’uomo più duro, freddo, disincantato. Con il fratello Jack ci fu una lunga rottura dei rapporti. La “giraffa” rimproverava Bobby di pensare troppo agli affari suoi, al punto da non presenziare al funerale della madre. La riconciliazione avvenne quando Jack stava per sprofondare nella malattia. Il destino ha voluto che lo stesso male si sia portato via i Charlton Brothers. Per la vecchia Inghilterra, la scomparsa di Sir Bobby è stato un colpo al cuore. E’ stato omaggiato da politici (il premier Rishi Sunak e il leader laburista Keir Starmer), da illustri personaggi del calcio (Lineker e Beckham), dall’ex United Rio Ferdinand (“le parole che Bobby Charlton mi disse mentre salivo la scale dello stadio di Mosca nel 2008 per ricevere la coppa della Champions resteranno sempre nella mia memoria”) e da Pep Guardiola (“amo l’Inghilterra per la cura delle leggende, Bobby Charlton rappresenta questo paese e il suo calcio come nessun altro”) e dai club internazionali più importanti. Ma l’immagine più bella di questa giornata triste è il pellegrinaggio silenzioso dei tifosi verso l’Old Trafford per deporre i fiori di fronte alla statua della “Trinità”: George Best, Denis Law e lui, Sir Bobby, il re del calcio inglese di tutti i tempi. King Bobby.

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