di Alessandra Minello*

Non serve una fine visione antropologica per cogliere l’impostazione culturale che ci accompagna ormai, di Legge di Bilancio in Legge di Bilancio, nella sovrapposizione tra i concetti di donna e di madre. Per esserne consapevoli basta ascoltare le parole scelte con cura, e sempre ribadite dalla Premier, che d’altronde dell’essere donna e madre ha fatto il suo brand. Quest’anno, però, il livello dell’asticella si è alzato: non basta essere madri, ma bisogna necessariamente esserlo di almeno due figli, per aver offerto un sufficiente “contributo alla società”. Nessun cambio di rotta, quindi, quando ieri a Palazzo Chigi è stata approvata la bozza di legge di Bilancio per il 2024.

Un’impostazione che si spinge sempre più verso una linea tradizionalista e schiva con decisione ogni passo progressista. Al centro dei cambiamenti in tema di lavoro, per una spinta alla natalità, rientrano infatti due gruppi precisi: le famiglie numerose e le madri. Non, quindi, i giovani che con i loro molteplici bisogni faticano a realizzare le loro ambizioni lavorative e familiari, ma solo le famiglie già costituite, meglio, appunto, se già numerose.

La misura, nello specifico, prevede l’eliminazione delle quote dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici per un anno se hanno due figli fino all’età di 10 anni del più piccolo e in modo permanente per quelle con tre figli fino ai 18 anni del più piccolo. Una manovra che da questo punto di vista ricalca la linea adottata dal Primo Ministro ungherese Viktor Orban che già nel 2019 adottava lo sgravio fiscale totale e a vita per le madri di quattro figli. È significativo il focus espresso “una donna che mette al mondo due figli, nel momento in cui abbiamo bisogno di invertire il trend demografico, ha già offerto un contributo alla società», manifesta quindi una visione della donna non come individuo che ambisce alla realizzazione dei propri desideri, ma come pedina di un gioco in cui il suo contributo viene pesato in base alla sua capacità riproduttiva, di fatto con una discriminazione per chi madre non lo vuole e/o non lo può diventare.

Non è caduta nell’errore dell’anno scorso Meloni, invece, annunciando un ulteriore mese di congedo parentale e non solo di maternità retribuito al 60% in aggiunta a quello, apparentemente confermato, di un mese all’80% già introdotto l’anno scorso. Una misura, che se entrasse in vigore stabilmente aiuterebbe le famiglie a una distribuzione più omogenea dei ruoli di cura, incentivando i padri a usufruire di tale misura, senza rinunciare a una fetta di stipendio del 70%, come accade oggi per i congedi parentali.

In realtà il ruolo delle donne deve essere molteplice, visti gli incentivi all’assunzione di madri attraverso la deduzione al 130%, quota superiore alle altre categorie. È chiaro, però che essere madre non basta, per poter lavorare: “poiché al secondo figlio, l’asilo nido deve essere gratis” viene detto in conferenza stampa. Cittadine di serie A che meritano benefit per avere soddisfatto il loro compito, contro cittadine che non meritano la stessa attenzione.

È curioso come la questione demografica, al centro delle discussioni politiche ormai in maniera numerosa negli ultimi anni, continui a non venire recepita nella sua centralità. Se l’idea è premiare chi ha due figli, poco si agirà sul problema centrale della fecondità nel nostro Paese. All’inizio del millennio, la contrazione demografica era principalmente legata a un calo nel numero dei secondi figli e dei figli di ordine superiore. Tuttavia, oggi assistiamo a una tendenza diversa, con una diminuzione significativa della natalità tra i primi figli. Nel 2021, il numero di primi figli nati è stato il 34,5% inferiore rispetto a quanto registrato nel 2008. Questa tendenza indica un cambiamento significativo nei modelli di natalità in Italia.

Secondo le stime dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), tra le donne nate negli anni 80, che si trovano quindi vicine alla conclusione del loro periodo fertile, circa un quarto non ha avuto figli, mentre poco più della metà (51,3%) ha avuto due o più figli. Nel frattempo, una su quattro di queste donne ha dato alla luce solo un figlio e probabilmente, vista l’età sempre più alta in cui si giunge alla maternità, non arriverà mai al secondo.

Perché, quindi, pensare a politiche che riguardano esclusivamente le donne con due figli o più? La questione rimane esclusivamente di posizionamento. Così come un posizionamento è non vedere che l’inattività delle madri che colpisce prevalentemente le donne al Sud non può essere incentivata soltanto dagli sgravi fiscali e dalla promessa di asili nido, quando questi di fatto non ci sono e non ci saranno nemmeno con i fondi Pnrr, ma dipende da una visione culturale che queste politiche contribuiscono a rafforzare di fatto premiando la sovrapposizione tra i concetti di donna e di madre, senza cogliere che, per liberare davvero le donne da questo ruolo castrante per le possibilità nel mondo del lavoro, i due concetti vanno separati.

Non sarà però la prima premier madre e donna a farlo e sarebbe un’illusione aspettarsi il contrario. Possiamo però far notare che avere anche una gerarchia tra madri per il numero di figli avuti è troppo anche per chi è tradizionale quanto lei.

* Ricercatrice in Demografia al Dipartimento di Scienze statistiche dell’Università di Padova. Studia le differenze di genere in Italia e in Europa negli ambiti della scuola, della famiglia e del lavoro

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