“Ho visto quel che sta accadendo in Israele e nel sud del Libano ma sinceramente non mi interessa, non è affar mio, facciano quel che credono laggiù, possono anche ammazzarsi”. Parole di Samer, un ragazzo del quartiere orientale a maggioranza cristiano-maronita di Mar Mikhail, a Beirut, neo-laureato in giornalismo all’Università americana, e fondatore di una piccola agenzia di stampa attiva anche sui social. “Tanto Hezbollah e Israele sono in realtà alleati, lo sanno tutti”, aggiunge, facendo eco ad una “teoria del complotto” sempre più diffusa negli ultimi anni in questo quadrante della città, platealmente ostile al partito sciita. “Hezbollah segue la politica dell’Iran, non gli interessa la posizione del Libano”, gli fa eco Nadhim, nelle stesse ore in cui il primo ministro Najib Miqati ribadisce – dopo essere stato rassicurato da Hezbollah sul mantenimento di una posizione relativamente “esterna” al conflitto in corso in Palestina e Israele – la volontà di mantenere il Libano in una situazione di “calma e tranquillità”, di protrarre la sua formale e tormentata pulsione di neutralità.

Nel sud del paese, ormai da una settimana abbondante, va in scena un conflitto che per il momento si potrebbe definire a “bassa intensità”, con protagoniste le truppe israeliane da un lato e i miliziani di Hezbollah e di alcune fazioni palestinesi con base in Libano dall’altro. Stamattina l’alba si è palesata nei panni di un sipario sulle oltre 4 ore di intensi bombardamenti notturni israeliani – che si alternavano ai lanci di razzi verso l’insediamento israeliano di Metulla da parte di Hezbollah, con un missile anti-carro che avrebbe causato due feriti – soprattutto sulle aree di Kfar Kila e Dahira, nonché sulle colline di Khiam e di Al Mahames.

Si sarebbero intensificati dopo che, secondo quanto afferma il portavoce delle Idf, quattro persone – tutte rimaste uccise – avrebbero provato ad entrare in territorio israeliano piazzando degli esplosivi sulla rete di recinzione, dal lato libanese. Secondo il corrispondente locale di Al Manar, l’emittente tv più vicina ad Hezbollah, le Idf avrebbero usato un centinaio di munizioni al fosforo bianco, come accaduto a Gaza e probabilmente anche nei pressi del villaggio di Mari, sempre nel sud del Libano, quattro giorni fa. L’utilizzo del fosforo nel corso di stanotte è stato poi confermato dalla Nna, l’agenzia di stampa nazionale, ma non dall’Esercito libanese, che ha invece confermato solo una manciata di feriti che poi sono stati trasferiti all’ospedale di Tiro, una città normalmente molto rumorosa, sulla quale negli ultimi giorni regna un silenzio tanto solenne quanto inquietante.

Il partito milizia filo iraniano ha rilasciato un video in cui mostra alcuni strikes andati a segno su postazioni di osservazione delle Israel defence forces nei pressi del confine, e nelle stesse ore le Idf hanno annunciato l’evacuazione di almeno 28 piccole comunità di residenti nel nord del paese, speculare a quella già in corso da qualche giorno in villaggi meridionali del Libano come Aita Al Shaab, Dhayra, Yarine, Rmeish, Odaisseh.

Nei giorni scorsi almeno due soldati israeliani sono rimasti uccisi in questi scontri a fuoco, e la stessa sorte è toccata ad almeno 5 miliziani di Hezbollah ed una manciata di miliziani palestinesi. A loro si è aggiunto anche Issam Abdallah, reporter libanese dell’agenzia Reuters, colpito dagli israeliani mentre si trovava nei pressi di una collina vicino ad Aalma al Shaab, insieme ad altri 6 colleghi, tutti feriti. Secondo il Commiittee for Protection of Journalists, escludendo quelli che sarebbero otto giornalisti uccisi in questi giorni a Gaza, Abdallah sarebbe il ventunesimo reporter ucciso dalle Idf negli ultimi 22 anni, e si sospetta che anche per la sua morte nessun soldato verrà condannato o indagato. Il 37enne, come ultima foto sul suo account Instagram, aveva postato una foto di Shireen Abu Aqle, la giornalista di Al Jazeera uccisa sempre dalle Idf a Jenin nel maggio del 2022. Nei pressi del villaggio di Meri, gli israeliani hanno risposto al lancio di una decina di razzi da parte di Hezbollah anche con munizioni al fosforo bianco, il cui uso sarebbe vietato nelle aree densamente abitate. Proprio nei pressi di Aita Al Shaab, nel 2006, partì il raid di alcuni miliziani di Hezbollah su una pattuglia israeliana, che si concluse con la morte di 8 soldati israeliani – tra cui i due inizialmente presi in ostaggio dalla milizia -, e che innescò l’escalation in grado di generare un conflitto di oltre un mese, con una invasione di terra israeliana.

Anche in questi giorni, l’ultima appunto stanotte, ci sono stati dei tentativi di incursione terrestre in territorio israeliano, tutte neutralizzate dalle Idf: è però probabile che il motivo per cui esse non hanno determinato una escalation simile risieda nel fatto che si è trattato di miliziani di formazioni palestinesi, che pur coordinandosi con Hezbollah, sono esterni ad esso e come tali vengono trattati da Israele. Di riflesso, la leadership di Hezbollah, così come il ministro degli Esteri iraniano Amir Abdollahian, recentemente in visita a Beirut, ha dapprima vincolato una più decisa entrata nel conflitto ad un’ eventuale intensificazione – invasione massiccia via terrestre – dell’assedio di Gaza, per poi annunciare di essere pronta a colpire nel “momento opportuno”. I tempi potrebbero anche dilatarsi molto, se si prende come riferimento la guerra del 2006, preceduta da almeno due mesi di “schermaglie” e poi da una decina di giorni di calma.

Molto, tuttavia, è cambiato rispetto al 2006, non solo dal punto di vista dello scenario geopolitico – con l’Iran divenuto attore più centrale negli equilibri regionali e gli Stati Uniti meno protagonisti di dieci anni fa – ma anche in termini di preparazione militare dei miliziani di Hezbollah, reduci dalla lunga campagna di Siria, ed il cui totale degli effettivi non è troppo inferiore a quello dei soldati israeliani (esclusi i riservisti). È cambiato molto anche in Libano: se il 2006-2007 è stato forse il biennio di maggiore popolarità interconfessionale di Hezbollah in tutto il Libano, oggi quest’ultimo è ai minimi storici di consenso presso le comunità diverse da quella sciita, sia per il suo ruolo di partito di “governo” nell’attuale profonda crisi politico economica, sia per la sua discussa partecipazione al conflitto in Siria, tracimato parzialmente anche in Libano, sia per la questione del suo arsenale parallelo a quello dello Stato, evocato nuovamente a partire dall’esplosione al porto di Beirut, rispetto alla quale le responsabilità di Hezbollah non sono ancora state chiarite.

Il Libano è un paese minuscolo, esteso poco meno dell’Abruzzo, ma i distretti che lo compongono, a volte i quartieri delle sue stesse città, sembrano lontani centinaia di km l’uno dall’altro. Non si tratta tanto delle architetture, dello scenario, dell’ambientazione, della meteorologia. È il clima, ma non quello atmosferico, ad essere profondamente diverso. Così come colpisce il contrasto tra prossimità territoriale ed estraneità esistenziale tra i cittadini di Gaza e gli israeliani che vivono nelle cittadine a ridosso della Striscia, in Libano è possibile registrare un’enorme distanza di vedute e percezioni della realtà tra cittadini che vivono a pochi chilometri di distanza. Se ragazzi come Samer e Nadhim vivono sempre con maggiore distacco qualunque conflitto che chiami in causa Hezbollah, e sembrano quasi disinteressati a ciò che accade nel sud del loro paese, percepito come molto più lontano di quanto non lo sia effettivamente, molto diversa è l’atmosfera a Sabra – un quartiere di Beirut – e Shatila, un campo profughi palestinese a ridosso di esso, famoso al grande pubblico per il massacro perpetrato dai falangisti – con la “cooperazione” israeliana – ai danni di migliaia di civili palestinesi inermi nel 1982.

Youssef, Moutaz e Mohammad, palestinesi nati in Libano da genitori costretti a lasciare la Palestina, non hanno dubbi: “A Gaza abbiamo degli eroi, quello che hanno fatto è incredibile, ci hanno sorpreso più di quanto non abbiano sorpreso gli israeliani”, in riferimento agli attacchi di Hamas in Israele. “Noi da qui possiamo solo mandare la nostra solidarietà, far sentire la nostra vicinanza, ma se potessimo passare la frontiera andremmo tutti a combattere: siamo tutti pronti”, dice Youssef, proprio mentre sequestra il kalashnikov giocattolo dalle mani dell’esagitato fratellino. Una gioventù, quella dei palestinesi dei campi profughi in Libano, caratterizzata dal sopraggiungere precoce dell’età adulta, dall’assenza di servizi basilari, dalla privazione di gran parte dei diritti, compreso quello alla cittadinanza. Giovani che vivono con la perenne illusione di vedere la terra da cui i loro nonni sono stati mandati via, motivati spesso in via esclusiva da questo desiderio quasi primordiale, che da quando sono nati si scontra con la realtà dei fatti. Per loro – così come per gli abitanti di Dahiye, la periferia a maggioranza sciita a sud di Beirut, “roccaforte” metropolitana di Hezbollah – la frontiera sud è vicinissima. Molto più di quei 100km in linea d’aria.

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