Loris D’Ambrosio non può essere considerato una vittima del dovere. Almeno secondo la quarta commissione del Csm, che ha chiesto al plenum di bocciare l’istanza presentata dai familiari dell’ex consigliere giuridico di Giorgio Napolitano al Quirinale, stroncato da un infarto nel 2012. Una valutazione, quella di Palazzo dei Marescialli, che arriva in clamoroso ritardo: la richiesta è datata 21 luglio 2017, quindi più di sei anni fa.

Magistrato di lunga esperienza, pm a Roma negli anni del terrorismo e della Banda della Magliana, D’Ambrosio aveva lavorato anche al Ministero della Giustizia, all’epoca in cui Giovanni Falcone era direttore degli Affari Penali. In via Arenula era stato anche capo di gabinetto di quattro guardasigilli, prima di essere chiamato al Quirinale da Carlo Azeglio Ciampi come consigliere giuridico. Incarico che gli era stato confermato anche da Napolitano. Colpito da un infarto il 26 luglio del 2012, all’epoca Napolitano si scagliò contro quella che definì “una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose“.

Il riferimento del capo dello Stato era agli articoli di stampa che raccontavano come D’Ambrosio fosse stato intercettato più volte mentre parlava al telefono con Nicola Mancino, indagato dai pm di Palermo per falsa testimonianza nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. In relazione a quelle registrazioni D’Ambrosio era stato sentito due volte dai pm siciliani come persona informata sui fatti. Al telefono col consigliere del Quirinale Mancino si lamentava del trattamento ricevuto da parte della procura. In un colloquio con il Fatto quotidiano D’Ambrosio aveva spiegato di aver ricevuto molte chiamate e lettere da Mancino e di averlo ascoltato perché si trattava comunque di un ex presidente del Senato. In quelle conversazioni Mancino si definiva “un uomo solo”. Ma l’ex ministro della Dc non telefonava solo a D’Ambrosio: per quattro volte la procura lo aveva intercettato mentre era al telefono direttamente con Napolitano. Ascolti che per la procura erano privi di interesse e di rilevanza penale. Nell’estate del 2012 il Quirinale aveva comunque sollevato un conflitto di attribuzione contro la procura davanti alla Corte Costituzionale, ottenendo in seguito l’immediata distruzione di quelle registrazioni, senza passare dunque da un’udienza stralcio in cui sarebbero stati presenti gli avvocati delle parti in causa, come prevede il codice di procedura penale.

Pochi giorni dopo la decisione di Napolitano di portare i pm davanti alla Consulta, D’Ambrosio era stato colpito da un infarto. Nei giorni della diffusione delle notizie relative alle intercettazioni con Mancino, il magistrato aveva presentato le sue dimissioni al presidente della Repubblica – che le aveva respinte – con una lettera in cui ricordava tra l’altro alcuni “episodi del periodo 1989- 1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi- di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi“.

Un anno dopo la morte di D’Ambrosio gli eredi chiesero di accedere ai benefici previsti per i familiari di chi è stato vittima del dovere o “equiparato vittima del dovere” disciplinati dalla legge 206 del 2004. La risposta della Commissione del Csm, arrivata ben sei anni dopo, non lascia margini di speranza e decreta “l’insussistenza dei presupposti” per il riconoscimento a D’Ambrosio dello status di vittima del dovere o per l’equiparazione chiesta dai suoi cari . Ora la parola passa al plenum che si pronuncerà mercoledì prossimo, ma è difficile che possa capovolgere la decisione. I motivi sono almeno due: intanto perché l’indicazione è passata all’unanimità. E poi perché la Commissione ha recepito senza modificarlo il parere dell’Ufficio Studi del Csm, che ha analizzato la normativa e ha escluso che ci potessero essere spiragli per il riconoscimento a D’Ambrosio dello status di “vittima del dovere“.

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