“Donna, vita, libertà”. “Donna, vita, libertà”. Il premio Nobel per la Pace all’attivista iraniana Narges Mohammadi è stato annunciato a Oslo scandendo dal leggio lo slogan che le donne gridano da oltre un anno nelle strade e non solo per chiedere il rispetto dei propri diritti. Uno slogan che è diventato il simbolo della lotta delle iraniane dopo la morte di Mahsa Amini, uccisa mentre era in custodia della polizia perché non indossava correttamente il velo. E che oggi, mentre la 16enne Armita Geravand è in coma per le botte ricevute in metropolitana dalla polizia morale, è ancora più importante sostenere. Per celebrare tutte loro, l’Accademia di Svezia ha deciso di premiare Mohammadi: quello per l’attivista e giornalista 51enne, hanno dichiarato, è un riconoscimento “alla sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran”, che ha portato avanti “a fronte di un’enorme sofferenza“. Ma è anche “un riconoscimento alle centinaia di migliaia di persone che hanno protestato contro le politiche di discriminazione e oppressione contro le donne del regime teocratico”. Mohammadi ha vinto il premio Nobel per la Pace, ma non sappiamo quando lo scoprirà: è detenuta nel carcere di massima sicurezza di Evin a Teheran e non può avere contatti con l’esterno. L’attivista è stata arrestata 13 volte, condannata cinque, per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate.

Mohammadi sta pagando per la sua campagna contro la pena di morte, la tortura e l’isolamento in carcere. Un impegno che ha portato avanti pagandone il prezzo sulla propria pelle. E l’appello che viene dalla cerimonia per i Nobel è che possa essere liberata: “Se le autorità iraniane prenderanno la giusta decisione la rilasceranno, potrà essere qui per ritirare il premio a dicembre”, ha detto la presidente del comitato Berit Reiss-Andersen. Una eventualità remota, secondo la famiglia. “Non credo possa succedere a breve”, ha detto il fratello Hamidreza ai media. “Non so neanche quando avrà la notizia del premio, forse glielo dirà qualcuno in prigione”. Un riconoscimento che, ha detto, rappresenta “un momento storico per la lotta per la libertà in Iran. E’ una gioia così grande, sono così felice a nome di Narges”. Il suo primo pensiero è stato per tutte le attiviste e attivisti iraniani: “La situazione”, ha detto, “è molto pericolosa per loro, gli attivisti possono perdere la loro vita”. In sostegno della decisione dell’Accademia di Svezia è intervenuto anche l’Onu, tramite la portavoce Elizabeth Throssel: “Questo premio è per le Nazioni Unite un riconoscimento al coraggio e alla determinazione delle donne iraniane” di fronte all’intimidazione, alla violenza e alle detenzioni. “Sono maltrattate per quello che indossano o non indossano”, ha detto, ricordando come in Iran siano in vigore “misure stringenti legali, sociali ed economiche” contro le donne.

L’attivista iraniana si batte per i diritti umani dagli anni ’90: da giovane studentessa di fisica, Narges Mohammadi si distingueva già come sostenitrice dell’uguaglianza e dei diritti delle donne. Dopo aver concluso gli studi, ha lavorato come ingegnera ed editorialista in diversi giornali riformisti. Nel 2003 è stata coinvolta nel Centro per i difensori dei diritti umani di Teheran, un’organizzazione fondata dalla premio Nobel per la pace Shirin Ebadi e di cui è diventata vice-presidente. Nel 2011 il primo arresto per il suo impegno nel sostegno agli attivisti incarcerati e alle loro famiglie. Dopo il rilascio su cauzione due anni dopo, Mohammadi si è dedicata completamente alla campagna per l’abolizione della pena di morte. Per questo è finita nuovamente in carcere nel 2015, dove si trova tuttora. Dalla prigionia, Mohammadi è riuscita a sostenere personalmente le proteste scoppiate in Iran dopo la morte di Mahsa Amini. Come si legge nella motivazione del premio Nobel, le viene riconosciuto come allo scoppio “ancora una volta” del movimento di protesta in Iran, Mohammadi dal carcere ha organizzato le altre detenute. Ed è anche riuscita a far uscire dalla prigione un suo articolo che fu pubblicato dal New York Times, per incoraggiare il movimento e assicurare che la protesta “non arretrasse”.

L’anno scorso, durante una breve licenza dal carcere per motivi medici, ha terminato il libro White Torture in cui racconta gli oltre due mesi in isolamento nella sezione 209 di Evin. Isolamento che chiama “tortura bianca”, il cui scopo “è quello di interrompere permanentemente la connessione tra il corpo e la mente di una persona per costringere l’individuo ad abiurare dalla propria etica e dalle proprie azioni”. Narges Mohammadi nel 2009 aveva vinto anche il premio Alexander Langer. Fu premiata – si leggeva nelle motivazioni – per il proprio impegno per un “altro” Iran. L’attivista non partecipò alla cerimonia perché, all’epoca, privata del passaporto e fu rappresentata a Città di Castello da Nargess Tavassolian, figlia di Shirin Ebadi.

Mohammadi ha trascorso un quarto della sua vita in carcere e, come ricordato da Riccardo Noury di Amnesty International Italia, la speranza è che il premio Nobel possa servire a ricordare la persecuzione giudiziaria che vive e aiutare a fare pressione per la sua liberazione. Per l’Accademia di Svezia, la speranza è anche che tutto il movimento delle donne iraniane si senta sostenuto: “Speriamo questo sia un incoraggiamento a continuare il loro lavoro nelle forme che il movimento troverà più adatte”. Perché loro si ricordino che non sono sole e c’è un sostegno a livello internazionale. E perché il mondo delle istituzioni non si dimentichi di loro e dei loro sacrifici in nome di “donna, vita, libertà”.

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