L’European Media Freedom Act (EMFA) è “un’occasione persa”. Perché da oggi “i giornalisti dovranno tener conto del fatto che le loro fonti non sono più inviolabili, non solo dal punto di vista tecnico, ma dal punto di vista giuridico”. Dimitri Bettoni, ricercatore e giornalista dell’Osservatorio Balcani Caucaso, ha partecipato ai lavori di coalizione della società civile che hanno affiancato il Parlamento europeo nel dibattito sul primo regolamento Ue sui media. Un atto storico per la tutela di libertà e trasparenza, ma che, su pressione dei singoli Stati, ha inserito sì il divieto di spiare i giornalisti, ma con la deroga in caso di tutela della “sicurezza nazionale”. Si tratta del “famigerato” articolo 4: nato per essere la prima forma di protezione per cronisti e croniste, ne è diventato la loro prima minaccia. Perché basta quella deroga generica a mettere a rischio il lavoro di tutti. E a oscurare gli aspetti positivi della legge Ue. “Per la prima volta una legge europea legittima e autorizza ciò che fino a ieri erano degli abusi”, dice Bettoni. “Quello che più ci rattrista è che il giornalismo è ancora percepito come un attore esterno e non un pilastro del funzionamento democratico”. Perché “non c’è giornalismo che funziona senza protezione delle fonti”.

Dopo le pressioni degli Stati, ci si aspettava che il Parlamento Ue intervenisse per migliorare il testo. Così non è stato?
Partiamo dai miglioramenti, molte delle osservazioni che abbiamo fatto sono state accolte. E questo perché c’è una collaborazione più funzionante tra l’istituzione parlamentare e tutto ciò che ruota attorno al mondo del giornalismo.

Si è intervenuti anche sul divieto di spiare i giornalisti?
Il miglioramento più importante è che non si tutelano solo “i giornalisti e i suoi familiari”, ma le tutele vengono ampliate e riguardano anche chi condivide l’ambiente di lavoro o non è contrattualizzato. E protegge anche le relazioni tra il giornalista e altre realtà, come quelle degli attivisti. E poi l’obbligo-dovere di rispettare queste protezioni è anche da parte di soggetti privati e non solo degli Stati membri. Quindi impegna di fatto gli Stati a essere più attenti nei confronti di attori privati e anche rispetto a una potenziale esternalizzazione di attività di sorveglianza.

E quando invece subentra la possibilità di essere spiati?
Ecco, entriamo nel perché invece siamo delusi. Nel testo licenziato è richiamata l’assoluta necessità di una attenta e dettagliata opera di valutazione da parte delle istituzioni giudiziarie, ogni qualvolta si sceglierà di utilizzare gli strumenti di sorveglianza, in particolare gli spyware. Questo a me lascia l’amaro in bocca, ma rispetto al testo originale è un miglioramento. Cioè ci sarà una supervisione ex ante rispetto all’utilizzo di strumenti invasivi. Nel testo originale si parlava solo di una valutazione ex post e quando qualcuno si fosse accorto che tecnologie di questo tipo sono state utilizzate contro di lei o di lui. L’importante era avere un filtro rispetto all’utilizzo di certe tecnologie, cosa che nella versione originale non era prevista.

La deroga di spionaggio per motivi “di sicurezza nazionale” quanto mette a rischio il lavoro dei giornalisti?
Sappiamo che gli abusi essenzialmente avvengono lì. La tutela della sicurezza nazionale è il passepartout che consente alle autorità, di volta in volta, di abusare di certi strumenti e la nostra posizione è sempre stata dire ‘non è necessario’. Perché esistono già tanti altri strumenti che consentono di portare a giudizio un giornalista, qualora ce ne fossero le ragioni. Poi la questione della sicurezza nazionale va oltre l’EMFA.

Non riguarda solo i media?
È un problema di bilanciamento nei rapporti tra istituzioni e società. Ed è un problema che ci portiamo dietro dall’11 settembre, quando gli Stati hanno cominciato a interpretare il concetto di sicurezza nazionale sotto forma di controllo e informazione capillare. L’EMFA lo rende esplicito. Quello che più ci rattrista è che il giornalismo è ancora percepito come un attore esterno e non un pilastro del funzionamento democratico. Perché se fosse percepito come un pilastro, tu non prevederesti strumenti che ne minano l’esercizio proprio alle sue fondamenta, ovvero la protezione delle fonti. Non c’è giornalismo che funziona senza protezione delle fonti.

Perché il Parlamento non ha ascoltato?
Purtroppo non siamo riusciti, questa è la riflessione più triste, a cambiare negli occhi delle istituzioni come queste vedono il giornalismo. Cioè l’insistenza che noi abbiamo avuto è: non serve utilizzare spyware contro il giornalismo. Serve rinforzare il giornalismo perché un giornalismo forte produrrà risultati di una magnitudine ben più alta rispetto a qualunque strumento informatico che puoi utilizzare contro e a danno del giornalismo. Serve un cambio di mentalità. Invece il giornalista è percepito come un ostacolo e non un aiuto.

Non è neanche chiaro cosa si intenda per sicurezza nazionale.
Per noi un piano ambizioso, ma comunque realistico, era arrivare a una definizione chiara di cosa sia e quali siano i suoi limiti giuridici. Anche qui il fallimento è palese. Così la valutazione resta in capo alla procura e al giudice per le indagini, a seconda poi dell’assetto istituzionale di ogni Paese. E quindi permane questo ampissimo livello di arbitrarietà su cosa sia sicurezza nazionale e quando questo concetto entra in gioco e fa scattare tutti quei cedimenti alla tutela della professione giornalistica.

Sono a rischio la segretezza delle fonti per i giornalisti in Europa?
Per la prima volta una legge europea legittima e autorizza ciò che fino a ieri erano degli abusi. È preoccupante perché il giornalismo si fonda sulla confidenzialità del rapporto tra il giornalista e le proprie fonti. Da oggi i giornalisti dovranno tener conto del fatto che le loro fonti non sono più inviolabili, non solo dal punto di vista tecnico, ma dal punto di vista giuridico. Cioè non potranno più tornare davanti a un giudice e dire: sono stati violati i miei diritti. Perché il giudice potrà rispondere: no, perché c’erano delle questioni di sicurezza nazionale o legate a indagini sui cosiddetti reati gravi.

Ad esempio?
Penso ai giornalisti greci. Thanasis Koukais indagava su crimini finanziari e rapporti di corruzione all’interno della politica greca ed è stato messo sorveglianza dalle autorità, ma con giustificazione di sicurezza nazionale. Però questa sicurezza nazionale non si capisce bene a chi vada a favore. Oppure, in Italia, penso a Nancy Porsia: è stata intercettata senza che ne sapesse nulla. Quella è la dimostrazione che l’istituzione non cerca un rapporto collaborativo, ma prende come e quando può.

Domani non potremo più protestare?
Se ieri potevamo denunciare un caso come quello del giornalista greco come una violazione dei suoi diritti, oggi ci troviamo di fronte a un testo di legge che legittima che quella violazione non è più tale.

I giornalisti sono percepiti come ostili da parte delle istituzioni?
E’ spesso così. Se andiamo al di là delle parole belle, non c’è mai un lavoro inclusivo. Il massimo che può succedere è che un giornalista venga convocato dalla procura, piuttosto che da un giudice e venga sentito come persona informata sui fatti. A quel punto il giornalista può decidere se e quanto collaborare e dove la legge gli consente di porre il limite. Manca invece, al di là della retorica, un meccanismo pratico che veda il giornalismo collaborare più attivamente con le istituzioni in temi di interesse pubblico comune.

Quindi il giudizio finale sull’EMFA è negativo?
La valutazione deve riguardare tutti i suoi aspetti e io credo che sia fondamentalmente positiva, anche perché c’è sempre un percorso da fare. Non è che oggi abbiamo l’EMFA e rimane incastonato per sempre così com’è. Possiamo continuare a lavorare per migliorare il testo. Sicuramente ci sarà tanto lavoro per far capire alle istituzioni che ciò che è stato scritto non è sufficiente. Non mi sento però di dire che l’EMFA è un fallimento. Io mi sento di dire che è un’occasione persa su alcuni punti specifici. La sicurezza del lavoro giornalistico e della protezioni delle fonti è il punto dove sanguina di più.

Ariane Lavrilleux, giornalista francese arrestata e perquisita per ottenere il nome delle sue fonti, chiede “una mobilitazione collettiva a livello euorpeo”. È la soluzione?
Tante cose sono state fatte, ma manca un sistema di cooperazione. Il lavoro di società civile fa fatica a raggiungere le prime pagine dei giornali e da queste tende a svanire molto velocemente. La creazione di un dibattito pubblico efficace richiede un lavoro martellante e costante.

Ora iniziano le trattative con il Consiglio europeo sul testo, cambierà ancora?
Staremo sulle barricate per fare in modo che il testo non prenda ulteriori derive. Però rispetto alla versione del Parlamento, le altre sono peggiorative. Quindi inutili illudersi, è praticamente impossibile che ci saranno miglioramenti.

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