Torrette, solai, fienili. Perfino una barchessa del 1400 che, prima di essere ridotta a un rudere, era stata ammirata dallo storico dell’arte Philippe Daverio. Sono le costruzioni colpite dal terremoto dell’Emilia-Romagna del 2012 finite al centro di un’inchiesta: secondo gli inquirenti, infatti, sono state demolite e danneggiate molto più di quanto non avessero già fatto le scosse così da per ricevere più fondi. Un vero e proprio sistema architettato per accedere ai contributi post sisma in Emilia simulando così dei danni agli edifici che dai primi rilievi risultavano solo “lesionati” o “lievemente danneggiati”. Il regista per gli inquirenti era un architetto di Bologna, oggi finito a processo a Torino con l’accusa di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche insieme a due persone: l’ingegnere incaricato di asseverare i danni da terremoto e la titolare di tre immobili ristrutturati grazie a 1 milione di contributi della Regione Emilia Romagna.

La sequenza sismica che colpì l’Emilia dal 20 maggio 2012, raggiungendo anche i 6 gradi della scala Richter, con epicentro nella Bassa modenese, causò 28 vittime, 300 feriti e oltre 45.000 sfollati con danni per oltre 13 miliardi di euro. Alla conta dei danni seguirono diverse ordinanze del Commissario delegato all’emergenza, l’allora governatore Vasco Errani, che affidavano ai Comuni il compito di istruire le pratiche edilizie ed erogare i fondi per la ricostruzione degli edifici danneggiati. La domanda di contributo doveva essere inoltrata tramite un professionista abilitato, che doveva gestire la pratica dalla A alla Z, attestando il nesso di causalità del danno con il terremoto e dando avvio al cantiere. Tra questi c’era l’architetto Damiano Tedeschi che, in veste di professionista accreditato sul portale Mude e direttore dei lavori, d’intesa con i due coimputati avrebbe prodotto foto e incarti che documentavano “danni strutturali più gravi di quelli riportati in conseguenza del sisma, da loro stessi aggravati mediante demolizioni”. Non solo. Il professionista avrebbe affidato i lavori di ricostruzione a un manipolo di imprese compiacenti, a rotazione, in cambio del 10% sull’importo delle commesse (a titolo di “spese tecniche”). Le ‘provvigioni’ sarebbero state consegnate brevi manu in contanti dai titolari delle ditte, le stesse che avevano svolto lavori di ristrutturazione – mai saldati – a casa dell’architetto.

Il processo è un filone di quello principale, radicato a Bologna, ed è stato trasferito a Torino per competenza territoriale perché una parte dei contributi pubblici è stata incassata su un conto corrente acceso nel capoluogo piemontese. Le indagini hanno preso il via da un esposto presentato nel 2018 alla Guardia di Finanza di Bologna da due collaboratori dell’architetto e corredato da fotografie, planimetrie, perizie e altri elaborati grafici. Lavorando alle pratiche edilizie e nel corso di diversi sopralluoghi, si sono accorti che i danni rilevati dalla Protezione Civile dopo le scosse non combaciavano con quelli allegati alla richiesta di contributo. Partendo dalla mole di materiale allegata all’esposto, gli inquirenti hanno ottenuto ulteriori riscontri dall’ascolto di conversazioni ambientali e telefoniche, oltre che dalle perquisizioni in uffici e abitazioni. “Quando facevo notare all’architetto che le foto erano diverse, lui rispondeva che c’erano state ulteriori scosse di terremoto e la struttura aveva ceduto. A quel punto per curiosità verificavo sul sito dell’Istituto Nazionale di Geofisica, ma non trovavo niente”, ha dichiarato a dibattimento un geometra.

L’obiettivo – è la tesi dei pm – era ottenere la classe di danno maggiore (edificio inagibile) in modo da massimizzare il contributo pubblico. Agli atti sono finite anche le istruzioni che l’architetto avrebbe impartito al titolare di una ditta di demolizioni. “Sei andato a fare quel lavoro? Tu devi andare a farlo quando c’è la nebbia, quando nessuno lo vede”, si legge nelle annotazioni dei finanzieri. Nulla era lasciato al caso: l’ingegnere strutturista forniva “specifiche indicazioni” su come eseguire la demolizione, per ottenere “danni tecnicamente compatibili con quelli causati dal sisma”. Il risultato, per quanto raffinato, aveva insospettito anche una funzionaria del Comune di Finale Emilia (che si è costituito parte civile ed è assistito dall’avvocato Vittorio Zappaterra) e l’aveva spinta a chiedere se i danni non fossero stati causati di proposito con dei mezzi meccanici. Tesi che ora sostiene anche una perizia commissionata dalla Procura.

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