di Claudia De Martino

Una recente conferenza tenutasi all’Arab Center di Washington DC ha dipinto un quadro fosco delle condizioni di vita in Medio Oriente e Nord Africa (MENA), che in tutta la regione – con poche eccezioni – non fanno che peggiorare in termini sia di tutela dei diritti umani, che di libertà di stampa e di espressione, che di sicurezza alimentare e idrica e infine di salute pubblica, correlata a quest’ultimi due fattori di rischio. La regione MENA versa in una crisi profonda la cui rotta è difficile da invertire, con 16 milioni tra rifugiati e sfollati interni, ma anche con sfide e disastri climatici sempre più visibili e letali, come attestano eventi recenti quali il terremoto avvenuto tra Siria e Libano lo scorso febbraio, quello intercorso in Marocco a settembre e le altrettanti recenti inondazioni in Libia.

I fattori di rischio nella regione sono infatti molteplici e si sommano gli uni agli altri. I conflitti e il vuoto politico causano l’assenza di servizi pubblici essenziali come la manutenzione delle infrastrutture di base di un Paese: ne è un esempio eclatante la tragedia consumatasi in Libia – con la città di Derna e le sue dighe ininterrottamente (dal 2015 al 2019) oggetto di bombardamenti e tiri di mortaio e di conseguenza per anni trascurate dall’autorità pubblica, poi franate rovinosamente fino a causare una grave inondazione e 11.000 vittime accertate dopo appena una pioggia abbondante. Altri Paesi della regione non godono di migliori condizioni: in Libano la crisi economica e di liquidità della Banca centrale ha rallentato da due anni (ottobre 2021) l’importazione di energia, facendo sprofondare il Paese nel buio per molte ore al giorno, una situazione precaria aggravata dall’aumento delle tariffe energetiche sfociato nell’assalto dei cittadini libanesi ai locali della Società elettrica nazionale in protesta contro i continui rialzi dei prezzi al netto di forniture ancora intermittenti (la luce continua a mancare per molte ore al giorno).

In Yemen, per 8 lunghi anni di guerra (dal 2015 in poi), due Stati arabi del Golfo (Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita), opposti agli Houthi sostenuti dall’Iran, hanno devastato il paese, causando gravi danni alle sue infrastrutture idriche e alle vasche di raccolta dell’acqua piovana, problemi a loro volta all’origine della forte emergenza alimentare e del ritorno di malattie come il colera, attualmente in diffusione. Nella Siria di Assad, che ormai si vuole “normalizzata” e riammessa all’interno della comunità internazionale e persino della Lega Araba da maggio scorso, la siccità imperversa dal 2021 e il 90% dei cittadini è privo di accesso all’acqua, mentre quasi 16 milioni su 21 sopravvivono esclusivamente grazie all’assistenza umanitaria internazionale e il 35% degli impianti idrici non funziona più, ma il regime non ha né i mezzi finanziari né la volontà politica per rimetterli in funzione.

Infine, anche in quei Paesi in cui non vi sono conflitti aperti ma striscianti, come nei Territori occupati palestinesi, essendo l’80% delle riserve idriche confiscate a favore degli occupanti ebrei e solo il 20% concesse in usufrutto ai palestinesi, si verifica una forte disuguaglianza nell’accesso all’ acqua, con un consumo quotidiano che oscilla tra i 70 litri a palestinese e gli oltre 300 per ogni israeliano, a fronte di una consumo medio pro-capite stimato a 100 litri giornalieri dall’Organizzazione per la Salute Mondiale (OMS). Senza accennare alla drammatica condizione di prigionia di Gaza, che già nel 2020 era stata bollata dall’ONU come un luogo invivibile, anche a causa del mancato accesso all’acqua potabile, di cui usufruisce solo il 10% dei suoi circa 2 milioni di cittadini.

Se il cambiamento climatico, con i disastri naturali che induce, influisce negativamente sulle condizioni di vita delle popolazioni, i fattori politici non sono affatto trascurabili nella gestione dei problemi e nell’amministrazione dei territori e lo stato di perenne conflitto e instabilità che attraversa la regione non può che aggravare le carenze esistenti. Medio Oriente e Nord Africa sono infatti crescentemente governati da istituzioni e regimi (elettivi e non) sempre meno democratici e rappresentativi, che individuano nelle rispettive popolazioni non soggetti titolari di bisogni da soddisfare e di diritti da rispettare difronte ai quali mostrarsi responsabili, ma nemici interni da sopprimere e sorvegliare, attraverso software sempre più tecnologici e pervasivi (come l’israeliano Pegasus), ma anche un apparato di leggi sempre più repressivo, che spazia dalle interdizioni a manifestare, estese finanche a sindacati professionali, alla punizione di crimini informatici, che, con l’apparente pretesto di evitare violazioni, in realtà criminalizzano la libertà d’espressione, restringendo lo spazio per le inchieste condotte dal giornalismo investigativo e monitorando gli account individuali sui social media di attivisti i diritti umani, alla ricerca di forme di dissenso da reprimere con violenza, come illustra il caso di Patrick Zaky in Egitto, accusato di minaccia alla sicurezza nazionale, diffusione di false notizie e propaganda per il terrorismo.

Di fronte a questo ampio fronte di crisi multisettoriali – economiche, politiche e ora anche climatiche – l’Europa continua a comportarsi come la bella addormentata: il Vecchio Continente si stupisce dell’aumento dei flussi migratori senza interrogarsi sui problemi all’origine di quegli spostamenti di massa e punta ancora ad arrestarli stipulando accordi con quegli stessi regimi che sono alla base dell’instabilità regionale e della fuga delle loro popolazioni. Una ricetta miope che minimizza il carattere strutturale sia del cambiamento climatico sia della questione migratoria, tra le sfide più pressanti del XXI secolo ed entrambe destinate a restare e modificare significativamente il volto dell’Europa prospera, pacifica e progressista della seconda metà del ‘900 che abbiamo ereditato.

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