di Luciano Sesta

Quando l’interpretazione di un cortometraggio che ritrae la vita reale di tante persone si allontana troppo dalle emozioni immediate che suscita, il problema non sta più nel cortometraggio, ma in chi lo interpreta cervelloticamente. E così sta accadendo con lo spot della Esselunga. Dimostrando di non saper tollerare nemmeno il più ovvio, delicato e composto sentimento di una bambina, certi adulti si sono subito rimessi in primo piano frignando come bambini. Non sono riusciti a vedere nella bambina solo una bambina, scorgendovi dietro l’adulto cattivo che la “usa” contro di loro.

Le proteste di chi accusa i produttori di voler colpevolizzare i genitori separati o di risvegliare sadicamente le loro sopite angosce sono un sintomo interessante del rapporto problematico che abbiamo oggi con la sofferenza e con la coscienza. Abbiamo la tendenza a “insabbiare” tutte quelle sofferenze che potrebbero essere ricondotte alle nostre scelte. Pur provandole, fingiamo che queste sofferenze non esistano, perché non sopportiamo l’idea che ce le saremmo potute risparmiare facendo scelte diverse o che la nostra scelta non sia stata quella più ottimale. Da qui anche il rapporto distorto con la nostra coscienza, dalla quale vogliamo solo pacche sulle spalle che ci rassicurino di aver fatto bene. Ma questo accade proprio perché non siamo psicologicamente sereni: se lo fossimo, non saremmo così terrorizzati dall’eventualità di avvertire qualche senso di colpa. Quando si va sempre in cerca di un colpevole che spieghi il proprio malessere, è naturale che poi si vedano accusatori dappertutto, persino nei sentimenti di una bambina che vuole solo armonia.

Lungi dal risultare irrispettoso, a me pare che lo spot della Esselunga abbia restituito un’immagine sincera e realistica dei sentimenti di molti genitori separati. I quali sanno benissimo che se qualcosa va storto, non è necessariamente colpa di qualcuno. Se ne fossimo consapevoli, non reagiremmo istericamente alla prospettiva di sentirci in colpa, ma approfitteremmo della scoperta di nostre eventuali mancanze per rimediare, non certo per piangerci addosso. Dopo decenni di (cattiva) vulgata psicoanalitica, invece, tendiamo a dimenticare che il senso di colpa non è di per sé patologico, ma rappresenta, per la nostra salute mentale, ciò che il dolore del corpo rappresenta per la nostra salute fisica: non una condanna senza rimedio, ma una spia luminosa, che invita ad agire positivamente allo scopo di prendersi cura della parte lesa. Se la coscienza mi accusa lo fa dunque non per inchiodarmi senza appello ai miei errori, ma per il mio e per l’altrui bene, e cioè perché io faccia meglio la prossima volta.

In alcuni genitori separati che hanno commentato lo spot sembra aver agito proprio questo naturale meccanismo: nel gesto semplice e positivo di quella bambina, nello sguardo di quella donna che “accompagna” la figlia verso l’ex marito e nella frase di quest’ultimo: “la chiamerò per ringraziarla”, non hanno visto un atto di accusa moralistica nei propri confronti, ma un possibile suggerimento di “disarmo” in situazioni spesso troppo nervose e conflittuali. Certo, solo chi ha un cuore già predisposto al bene dei più piccoli può leggere questo messaggio propositivo. Che potrebbe forse aiutare anche tutti gli altri a guardare in faccia con più trasparenza il proprio disagio, anziché sfogarlo contro un nemico che non c’è.

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