Una norma di poche righe per garantire il futuro di due alti papaveri di governo, neutralizzando la legge Cartabia contro le “porte girevoli” tra politica e magistratura. Infilata a forza nel decreto Asset (che si occupa di banche e caro-voli) grazie a un emendamento della Lega approvato senza dibattito dopo il calar del sole, con il parere favorevole del governo, nella seduta-fiume delle commissione Industria e Ambiente del Senato. Un’operazione, non è un segreto, cucita su misura per (almeno) due capi di gabinetto ministeriali, magistrati con una lunga carriera nei palazzi romani: Alberto Rizzo, attuale braccio destro del Guardasigilli Carlo Nordio, e Alfredo Storto, in servizio al ministero delle Infrastrutture guidato da Matteo Salvini. Entrambi, infatti, si preparano a lasciare le poltrone e vogliono tornare subito a indossare la toga, aggirando i fastidiosi ostacoli introdotti dalla riforma dell’ordinamento firmata dall’ex ministra del governo Draghi, che dopo la fine del mandato impone un anno di “purgatorio” in ruoli non operativi e il divieto di ricoprire incarichi direttivi per tre anni.

Il caso più “urgente” è quello di Rizzo, su cui sta per calare la tagliola della legge Severino, che ha fissato per le toghe un limite massimo di dieci anni per ricoprire incarichi fuori ruolo (cioè diversi dal lavoro negli uffici giudiziari) in modo da scoraggiare le carriere parallele. Prima della chiamata di Nordio, il magistrato altoatesino – fino all’anno scorso presidente del Tribunale di Vicenza – era già stato distaccato al governo dal settembre 2007 al febbraio 2015, come consulente della Protezione civile e poi come ispettore del ministero della Giustizia. Fanno già sette anni e mezzo, quindi il mandato di capo di gabinetto può durare al massimo due anni e mezzo dalla nomina: non oltre febbraio 2025. In più, per lui l’aria al ministero è diventata pesante: la sua vice, l’ex deputata di Forza Italia Giusi Bartolozzi, gli fa da mesi una guerra sotterranea aspirando a prendere il suo posto, e negli ultimi giorni è stato sconfessato in pubblico anche dallo stesso Guardasigilli sul tema della riapertura dei piccoli tribunali. Insomma, in via Arenula non vedono l’ora di salutarlo. Per tutti questi motivi Rizzo ha iniziato ha già iniziato a cercare una exit strategy anticipata e ha fatto domanda al Consiglio superiore della magistratura per andare a presiedere il Tribunale di Firenze (che a dicembre sarà lasciato libero da una sua omonima, Marilena Rizzo) o in alternativa la Corte d’Appello di Brescia (dove a novembre scadrà Claudio Castelli). Forte, oltre che del prestigioso curriculum, anche dei sette voti garantiti in plenum dai suoi compagni di corrente, i conservatori di Magistratura indipendente.

Ma al piano c’è un ostacolo, ed è proprio la legge Cartabia che impedisce ai giudici e ai pm chiamati ai vertici ministeriali di tornare in toga subito dopo la fine del mandato, e a maggior ragione di farlo traslocando subito a capo di un ufficio. Una norma pensata per evitare che il mandato politico diventi un trampolino di carriera. Che però ha una scappatoia: non si applica se l’incarico di governo dura meno di un anno. Rizzo è al limite, avendo preso servizio il 27 ottobre 2022. Ed ecco che a salvarlo interviene l’emendamento del Carroccio (a prima firma della senatrice calabrese Tilde Minasi) inzeppato in un decreto a tema economico con la scusa-passepartout del Pnrr: “Al fine di consentire la continuità nella gestione delle attività amministrative connesse all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”, si legge, fino al 31 agosto 2026 il termine di un anno entro il quale non scatta il divieto “è modificato in due anni in relazione agli incarichi (…) assunti presso amministrazioni titolari di interventi previsti nel Piano”. Tra cui, ça va sans dire, il ministero della Giustizia. Così il capo di gabinetto potrà starsene tranquillo ancora per qualche mese senza doversi dimettere, fino a quando – presumibilmente a metà del 2024 – il Csm, spera lui, lo manderà a Firenze o a Brescia. Lo stesso vale per Alfredo Storto, magistrato amministrativo, capo di gabinetto di Salvini e già capo dell’ufficio legislativo di plurimi ministeri (è stato già alle Infrastrutture con il 5 stelle Danilo Toninelli nel Conte I). Anche lui, a quanto risulta al Fatto, si è stancato dei palazzi e vuole tornare in toga: potrà farlo subito e pure in un ruolo dirigenziale. Alla faccia delle porte girevoli.

“È un emendamento che tradisce al cuore la ratio della norma sulle porte girevoli tra politica e magistratura”, attacca Gabriella Di Girolamo, senatrice M5s in Commissione Ambiente. “Evidentemente maggioranza e governo pensano di poterla aggirare con una forzatura a tutela delle loro esigenze del momento. È il loro modo di intendere la politica e il servizio al Paese. In questo caso vanno a toccare una norma di estremo buonsenso, pensata proprio per scongiurare il meccanismo delle porte girevoli. Ma se a loro quella porta non piace, la sfondano con un tocco di penna“.

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