Qualche anno fa mi sento al telefono con Emanuele Coccia che (sorprendendomi, perché non immaginavo potesse essere nelle sue corde) esordisce: “Sto leggendo l’Introduzione a Verità e metodo. Ma quanto è intelligente Vattimo!”. Già, di Gianni, per chi lo conoscesse, era questo disinvolto – dunque anche leggero, ma non per questo meno ‘fendente’ – rapporto con l’intelligenza a lasciar sbalorditi. Nonostante l’enorme cultura, non ostentava mai. Al massimo, scanzonatamente, dissimulava: “Per forza – diceva – ho letto tanti libri, quand’ero assistente Pareyson mi chiamava al telefono alle sei del mattino per vedere se stavo studiando!”.

Dava l’impressione che tutto gli riuscisse facile. Anche quando, in uno dei tanti interventi, improvvisava, incominciando magari con una facezia. Inizialmente bighellonava un po’, con quel suo fare strategicamente sornione, ma poi arrivava sempre la staffilata, l’affondo, un’idea vera, capace di mettere in discussione il ‘già-detto’, il ‘già-pensato’.

Del Vattimo filosofo rimangono i libri (tanti), lezioni e interviste, su cui ci sarà tempo di tornare. Quel che vorrei ricordare, invece, è l’eccezionalità del carattere, perché Gianni era un connubio di irriverenza, ironia, leggerezza e generosità, qualità più che rare, rarissime, specie in quella strana consorteria di impettiti o arrivisti, permalosi con subdola vocazione autoritaria, che è la gerarchia universitaria. Mentre chi si crede qualcuno senza esserlo concede dall’alto, incapace di vera gentilezza, Vattimo – che semplicemente qualcuno lo era davvero – per una naturale inclinazione all’uguaglianza concepiva solo rapporti orizzontali.

Ricordo un incontro patavino. Dopo il seminario del giorno precedente, mi aveva invitato a colazione – all’epoca avevo poco più di vent’anni, che cosa potesse significare per me non c’è bisogno di dirlo. Lui invece, che nel circuito accademico si annoiava, aveva voglia di fare «quattro chiacchiere su Heidegger. Basta che non parli troppo difficile, sennò non capisco e mi tocca mandarti a quel paese!». Stette a sentire per un’ora le mie corbellerie, certamente viziate da certa giovanilistica supponenza e conseguente rigidità di prospettive, tanto che rischiava di perdere il treno, con Umberto Curi che lo inseguiva per il ghetto perché firmasse non so quale documento per poter essere rimborsato dall’università e Vattimo, sfilandosi, «Ma va’! Offri una cena agli studenti!», e intanto scappava via trascinando il trolley e ridacchiando.

Altri incontri a Berlino – con Silvia Mazzini e la sua esilarante mappa faustiana dei night club – e a New York, dopo una presentazione all’Istituto Italiano di Cultura. Gianni camminava già molto lentamente. Andammo a prenderlo in albergo e passammo il pomeriggio in un locale lì a due passi. Voleva sapere come mi trovassi in America. Gli feci presente che se non fosse stato per lui forse in America non ci avrei mai nemmeno messo piede, perché le sue lettere contavano certo più dei miei superfluissimi ‘titoli’. “Figuriamoci, qua non mi caga nessuno, sono una star dell’altra America, quella vera!”, indicando il Sur. Puro understatement, tra le cui righe andava letto che preferiva per natura quelli che contestano, gli irregolari, gli ultimi, i vessati. Fu peraltro uno dei pochi intellettuali influenti a far davvero propria la causa palestinese; quando il Salone del Libro nominò Israele ospite d’onore, entrò in Facoltà ravvolto nella bandiera dell’Olp (l’intervista improvvisata per l’occasione, dove spernacchia il gotha dei tromboni della stampa padronale che dominano l’informazione e si lamentano per la disinformazione, cioè contro chi semplicemente non riescono a condizionare, è ancor oggi uno spasso).

Negli ultimi anni, i più difficili, capitava di andarlo a trovare nella splendida casa di via Po, tappezzata di libri e opere d’arte. Con l’immancabile Marco Vallora, sileno e scriba dell’arte di ogni luogo e di ogni tempo, che era stato suo studente e – quanto ci manca! – se n’è andato prematuramente ormai un anno fa. S’incominciava con qualche chiacchiera, il tè delle cinque, e si finiva a notte tarda, dopocena, talvolta con noi ospiti ai fornelli tra boutade, aneddoti, colorite prese per il culo di qualche presunto maître alla ribalta, un po’ di tenace malcontento per “serva Italia”, martoriata dall’ignoranza e dall’inconcludenza della “peggior classe politica dal Dopoguerra” (che, inevitabilmente, era per l’occasione l’ultima appena sfornata dai seggi elettorali).

Gianni, che aveva sempre rivendicato di esser debole, ed era la sua forza, il suo antidoto al nichilismo della potenza che sostiene l’ideologia distruttiva e predatoria della tanatopolitica occidentale, era infine diventato fragile, la voce rotta, la deambulazione compromessa, eppure nello sguardo, intatto, continuava a friggere un indomito baluginio di libertà. Infilava ancora una battuta dietro l’altra, primo obiettivo polemico la sua stessa infermità: “Son diventato come il convalescente dello Zarathustra!”. Invece possedeva, per dote innata, quella “Grande Salute” che ha a che fare con l’entusiasmo contagioso, che è ispirata dal dio e perciò non muore quando il corpo muore.

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