di Rita Ricchiuti

L’immagine del successo ai maggiori livelli del professionismo nello sport non ha sempre l’aspetto brillante di una medaglia d’oro. Per le donne poi, il prezzo del successo è ancora più alto ma soprattutto è radicato nella cultura stessa di una carriera sportiva.

Le radici alla base della Nazionale spagnola femminile di calcio erano deteriorate fin dal principio o perlomeno dal momento in cui il calcio femminile ha smesso di essere considerato un hobby. Più questa realtà sportiva acquisiva spessore e identità, più cresceva l’oscurità che la circondava. Negli anni, la squadra spagnola femminile evolveva progressivamente con la passione e il talento delle sue protagoniste, ma anche con quella raccapricciante consapevolezza che per poter avere un futuro, l’impegno e il sacrificio non bastavano, era necessario accettare e subire, in silenzio, per non perdere quel posto conquistato a fatica contro ogni pregiudizio.

Ma la verità è che l’abuso non dovrebbe mai essere una conditio sine qua non per aver diritto a eguali possibilità, non dovrebbe mai essere uno strumento per il successo. E soprattutto la scelta non dovrebbe mai ridursi a restare o andar via.

Quando 12 delle 15 giocatrici spagnole, che nel 2022 avevano lasciato la Nazionale come forma di protesta contro la cultura tossica e dittatoriale instaurata dal CT Jorge Vilda, tornarono in squadra a ridosso dei Mondiali del 2023, in tanti hanno facilmente pensato che forse quella situazione stava bene anche a loro. Perché in fondo è sempre più semplice credere che la vittima fosse d’accordo, che fosse consensuale. Ma se è vero che la rivoluzione nasce anche sul sacrificio di un sogno e soprattutto sull’unione di intenti, è ancor più vero che nessun’atleta dovrebbe essere costretta a perdere il lavoro di una vita per aver subito un abuso, quando coloro che lo hanno perpetrato restano
saldi ai loro posti.

La Nazionale spagnola femminile allora decide di scendere in campo anche contro i giudizi dell’opinione pubblica, di affrontare non solo l’avversaria sconosciuta davanti a sé ma anche il nemico familiare alle spalle, di giocare per una vittoria che non sarebbe più solo un trionfo ma una leva per forzare il cambiamento. E contro ogni previsione, la Spagna vince e per un momento tutto sembra possibile. Ma neanche una medaglia d’oro al collo può essere garanzia di sicurezza.

A un passo dal sollevare al cielo la Coppa del Mondo, la veterana Jenni Hermoso viene derubata di un momento di pura e incondizionata gioia dal Presidente della Federcalcio spagnola determinato ad appropriarsi di un successo che non gli appartiene. Luis Rubiales festeggia come se tutto gli fosse dovuto, forza un bacio sulle labbra di Hermoso senza preavviso, senza consenso.

Paradossalmente, il giorno che doveva mostrare al mondo la grandezza della Nazionale spagnola femminile si trasforma nel giorno in cui tutti si rendono conto delle condizioni in cui quella squadra è diventata grande. Non c’è davvero neanche più il tempo di festeggiare. L’iter che segue è quasi un classico. Prima la negazione, poi le scuse, in seguito il tentativo di rimettere ogni male in un vaso di Pandora che ormai è esploso. E di fronte all’evidenza, quando la poltrona scotta, arriva il contrattacco, il gioco al massacro, la diffamazione. Ma questa volta il mondo ha visto e ora si ribella.

Le giocatrici della Nazionale spagnola femminile scendono in battaglia con un fronte unito, alle spalle tutto il calcio femminile che lotta con loro. Non abbassano più lo sguardo, non indietreggiano. Rubiales urla “non mi dimetto!”, è costretto a farlo pochi giorni dopo. L’allenatore Jorge Vilda fa da apripista quando viene licenziato. Ma adesso non basta più.

Le calciatrici si rifiutano di tornare in squadra se i cambiamenti pretesi nella Federazione non saranno radicali ed effettivi, tabula rasa. La nuova allenatrice le convoca comunque contro la loro volontà e allora si resta a discutere fino alle 5 del mattino, per riprendersi il libero arbitrio, per pretendere voce in capitolo sul loro futuro. Ad ogni colpo sferrato, la squadra risponde con una reazione uguale e contraria, compatta forse come non mai ma pronta a lottare in campo e fuori.

Perché in fondo questa è esattamente la storia di ogni giocatrice, di ogni atleta che insegue un sogno, un obiettivo. È la consapevolezza di dover disputare una partita che dura molto più di 90 minuti, di dover combattere per molto più di un risultato finale e di dover scendere in campo contro un rivale che stringe tra le mani le redini del tuo stesso destino. E l’unica vittoria allora è riprendersela.

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