“Non venite, sarete trattenuti e rimpatriati”. Ci ha provato anche così, Giorgia Meloni, ad affrontare il problema degli sbarchi di migranti, ormai 133mila da inizio anno e più di 160mila da quando il suo governo è in carica. Con un video in cui si rivolge direttamente a loro: “Non conviene affidarsi ai trafficanti di esseri umani perché vi chiedono molti soldi, vi mettono su barche che non sono attrezzate e, in ogni caso, se entrate illegalmente in Italia sarete trattenuti e rimpatriati”. Ed è forse l’iniziativa della premier ad aver restituito alle cronache un’iniziativa della Regione Piemonte oggi guidata dal centrodestra. Un video musicale che affida alla nota band senegalese Masse 36 il compito di mettere in guardia i giovani dai pericoli dei viaggi verso l’Europa. Teki fi menane na nek, realizzarsi qui è possibile, li sprona il testo della canzone, ritrasmessa di recente da radio e televisioni del Senegal per iniziativa del Piemonte. Niente di nuovo, il video è online dal 2019, quando è stato realizzato grazie a un bando ministeriale avviato ai tempi della giunta Sergio Chiamparino per finanziare “oltre 50 Startup, 7 centri giovanili e formato 800 giovani affinché potessero aprire la propria impresa in Africa e creare a loro volta occasioni di sviluppo e lavoro in loco”, spiega la giunta attuale, guidata da Alberto Cirio. Anche il progetto per sensibilizzare i giovani nasce con il centrosinistra, ma a realizzarlo sarà poi il centrodstra. “Noi gli abbiamo voluto dare maggiore vigore e diffusione”, spiega al Fatto l’assessore alla Cooperazione Maurizio Marrone, meloniano nelle file di Fratelli d’Italia.

Ripresa dai quotidiani, dal Giornale a la Stampa, l’iniziativa fa discutere. Visto il messaggio di Meloni, e il colore della giunta piemontese, non mancano le critiche a un messaggio che alcuni considerano arrogante. Al netto delle possibili strumentalizzazioni politiche, il giudizio rischia di essere affrettato, perché nei Paesi africani il tema esiste eccome. Piuttosto c’è da chiedersi se messaggi come questo funzionino, se riescano a rendere le persone più consapevoli della scelta di partire. “Tra i giovani senegalesi c’è poca consapevolezza delle condizioni di viaggio e dei pericoli per le loro vite. Io stesso in Senegal ho preso parte a progetti per informarli, anche attraverso la testimonianza di madri che hanno perso i figli, morti nel tentativo di raggiungere l’Europa, o di ragazzi respinti e rientrati nel Paese”, racconta Pape Diaw, senegalese da 40 anni in Italia, da sempre impegnato come mediatore al fianco dei migranti che chiedono protezione. Quei progetti hanno funzionato? “Chi era intenzionato a partire non cambiava idea: “io devo partire“, dicevano”. Il perché suona quasi ovvio: “Dalla capitale Dakar alle zone rurali inaridite dal cambiamento climatico, per i giovani non ci sono opportunità: anche se la tua famiglia ha fatto sacrifici, se hai una laurea e addirittura dei master, come i tanti under 30 che è facile incontrare nelle città, ma privi di prospettive. In molti casi, poi, non avere lavoro significa patire la fame, la tua e quella della tua famiglia”, spiega Diaw, che ha i genitori in Africa e torna spesso nel suo Paese, “responsabile di politiche poco lungimiranti, che non danno ai giovani una possibilità di restare”.

“Per lo più vogliono arrivare in Spagna o in Italia, nonostante siano francofoni. “A Roma o a Barcellona oppure la morte”, si sente ripetere”. Anche la Costa d’Avorio, seconda nazionalità tra quelle sbarcate in Italia nel 2023 con 14.387 arrivi, non è più un’opzione per i giovani del Senegal. “E poi c’è l’esternalizzazione delle frontiere da parte dell’Unione europea, che ha reso più complicati gli spostamenti interni al continente africano, con governi che hanno aumentato i controlli, che bloccano e respingono le persone in osservanza di accordi coi paesi europei”, sostiene Diaw. “Così ha fatto il Niger, dal quale molti senegalesi sono dovuti rientrare, con il governo accusato di essere prono all’Occidente fino al recente golpe”, spiega Diaw. Messaggi, ostacoli, pericoli, eppure si parte. “Nel nord del Senegal, anche al confine col Mali, le terre coltivabili sono sempre più scarse, così la famiglia vende una mucca o un cavallo e un figlio si mette in viaggio. A volte è l’intero villaggio a raccogliere i risparmi perché il più in gamba parta”, aggiunge. “E’ ripresa anche la follia dei viaggi sulle piroghe, direttamente dalle coste del Senegal per raggiungere la Spagna, e già centinaia ne sono morti: se non li ferma la prospettiva di morire in mare, come potrà mai fermarli Giorgia Meloni con la minaccia di chiuderli in un Cpr?”.

Diaw vive a Firenze e lavora per una cooperativa che gestisce diversi centri di accoglienza straordinaria (Cas) in Toscana. “Ho appena assistito due minorenni salpati dalla Tunisia, pieni di lividi, uno con una ferita, che mi hanno raccontato di essere stati picchiati dai tunisini”, racconta citando la situazione nel Paese, dove il presidente Kais Saied, oltre a firmare l’ormai noto memorandum con l’Ue, già dall’anno scorso muove accuse contro gli stranieri, i neri in particolare, indipendentemente che si tratti di migranti diretti in Europa. “Chi arriva dalla Tunisia o dalla Libia spesso ha subito torture, traumi che necessitano di costante assistenza”, spiega. “Almeno il 20% dei richiedenti necessita di un supporto psicologico e purtroppo le condizioni in cui versa l’accoglienza in Italia non fa che peggiorare le cose”. In che senso? “Il governo ha tolto i fondi per i servizi che una volta venivano forniti nei Cas, così i centri sono diventati veri e propri dormitori in cui non c’è nulla da poter fare, se non aspettare i tempi dell’esame della domanda d’asilo. Ma questo genera sconforto e i casi di depressione sono tanti”. Avverte: “Sappiamo quanto siano rari i rimpatri, così chi subisce questa situazione senza imparare l’italiano, un lavoro, nulla, prima o poi finisce sulla strada. Eppure non si parla delle persone, minori compresi, che sviluppano problemi di salute mentale: ne vedo ogni giorno, sono tante e per lo più vengono sedate, nient’altro”. Che fare? “Faccio un appello al governo perché riprenda in mano l’accoglienza, perché dia dignità a tutti i richiedenti e non sottovaluti i rischi legati all’abbandono di chi ha subito dei traumi e ha bisogno di cure”.

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