di Leonardo Botta

Più passa tempo, e aumentano le occasioni per tracciare bilanci su questi primi mesi di Elly Schlein a capo del Partito Democratico, più si consolida in me la convinzione che avevo maturato prima che la neo-segretaria socialdemocratica si candidasse alle primarie del febbraio scorso (alle quali anche io votai per lei, pur non avendo la più pallida idea che alla fine l’avrebbe spuntata sul competitor Stefano Bonaccini). Da quando, diversi anni fa, ho cominciato a seguire la sua attività politica, mi sono infatti persuaso che la Schlein avesse i numeri per ascendere alla guida di un partito di sinistra che, anche grazie a lei, potesse raggiungere quote di consenso importanti tra gli italiani. No, non sto parlando del Pd ma, piuttosto, del popolo che oggi si riconosce prevalentemente nell’Alleanza di Verdi e Sinistra, una formazione politica che, nonostante sia capeggiata da un ticket di segretari (Bonelli e Fratoianni) e da una classe dirigente a mio avviso un po’ scialbi, e pur mortificata da strategie rivelatesi fallimentari come la candidatura di Soumahoro, continua a conservare un gradimento elettorale che i sondaggisti stimano sopra il 3%.

Ebbene, sono convinto che se, da quando lasciò il Pd nel 2015 in polemica con il segretario Renzi, la buona Elly avesse incardinato la sua azione politica organicamente in un partito di sinistra ambientalista più radicale di quanto lo fosse quello fondato da Walter Veltroni (in realtà, lei aderì al poi sfumato progetto politico di Pippo Civati, fondatore di “Possibile”, prima di fiondarsi nell’avventura amministrativa che la portò alla vicepresidenza della Regione Emilia Romagna), avrebbe avuto buone possibilità di scalata alla sua leadership. E oggi potrebbe guidare un soggetto più affine alla sua idea di politica, dal potenziale consenso a due cifre (che, naturalmente, per il principio politico dei vasi comunicanti, avrebbe rosicchiato un po’ di voti al Partito Democratico e forse anche qualche decimale ai partitini dell’estrema sinistra).

Ma i se, come le chiacchiere, stanno a zero. Sicché oggi la Schlein è a capo del Pd, non senza fatica e contraddizioni. L’altro giorno, a Otto e Mezzo, la segretaria bolognese, incalzata da Lilly Gruber e dal direttore de La Stampa Giannini, mostrava tutti i balbettii e i tentennamenti di chi deve cimentarsi nella difficile arte dell’equilibrismo, tra l’esigenza di attuazione del suo programma politico e il timore di continue scissioni, tra le (almeno) due anime e le mille correnti del partito, stretto tra le legittime rivendicazioni dei sostenitori di Bonaccini e le residue nostalgie renziane: agli intervistatori la segretaria forniva risposte alquanto evasive su temi tosti come la guerra russo-ucraina, il jobs act, l’emergenza migranti, rifugiandosi in palle buttate in tribuna farcite di “vedremo”, “valuteremo”, “pondereremo”. Al punto da far esclamare a una spazientita Gruber: “Ma chi la capisce se lei parla così?”.

Certo, un eloquio ben diverso da quello che mostrava Giorgia Meloni quando era all’opposizione; quando lanciava proclami che si sarebbero poi rivelati emerite sciocchezze (eliminazione delle accise dei carburanti, blocchi navali, uscita dell’Italia dall’Unione Europea), ma li affermava con un piglio e una narrazione che le hanno fruttato, prima donna nella storia, la guida del nostro paese.
Intanto, dopo che, con l’elezione della Shlein, il Pd era balzato dal 15 al 20% nelle intenzioni di voto dagli italiani, da un po’ di tempo pare che da lì non si schiodi. Forse, con questi venti di destra e chiari di luna, è già tutto grasso che cola.

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