Finalmente a Venezia si respira a pieni polmoni, un soffio etico che era necessario in un’edizione quest’anno particolarmente asfittica. A parte qualche ottima eccezione – Poor things di Lanthimos su tutti, ma anche Evil does not Exist di Hamaguchi e Dogman di Luc Besson – i film del concorso mancano di aria: come se il cinema non sapesse più raccontare in sintonia con la realtà, ma dovesse rivolgersi solo a se stesso, ai generi più battuti e perciò in certo senso autoreferenziali, l’horror, il fantasy, il biopic.

Con Green Border di Agnieszka Holland – film che entra nel ristretto novero dei candidati al Leone – il cinema torna ad emettere un grido etico, grido drammatico e inquietante, che fa pensare alle grandi opere di Rossellini, per ricordare la tragedia che vivono i migranti in cerca di un ingresso nell’Unione Europea. L’Europa ancora come Lamerica di Gianni Amelio di tanti anni fa, ma vista ora con il carico di morte che i migranti di oggi si lasciano alle spalle. Cercare il varco verso l’Europa non è solo trovare l’Eden, ma anche lasciare l’inferno delle bombe, degli stermini, delle distruzioni.

E chi sta da questa parte, dalla parte fortunata del mondo? Chi sta di qua, nel nord di ogni sud simbolico, si trova di fronte a una scelta umana, come dice in una dichiarazione Maja Ostaszewska, l’attrice principale del film che nella vita è anche un’attivista per i diritti umani al confine con la Bielorussia. Quando qualcuno bussa alla tua porta, lo si può aiutare o si può far finta di non sapere cosa sta accadendo. Questo è anche il dilemma su cui culmina Green Border, che parte invece quasi come un racconto di viaggio familiare.

Sull’aereo turco che porta una famiglia siriana, un’insegnante afghana in fuga e altri espatriati verso la Bielorussia non c’è ancora l’aria del dramma che seguirà. Ma la tranquillità dura poco: scesi dall’aereo, la famiglia siriana e l’insegnante afghana salgono su un’auto che li porta al confine con la Polonia, miraggio finalmente raggiunto. Di là dal filo spinato, sia pur in una foresta minacciosa, c’è la salvezza, di qua l’arroganza e il ricatto di guardie di frontiera che per voltarsi dall’altra parte e far finta di non vedere chiedono mazzette. L’odissea è cominciata, ma il passaggio del confine non salva nessuno, e i migranti vengono rimpallati da una parte all’altra della linea. Il confine, che ora servirebbe come barriera protettiva che separa dall’altro, si rivela invece come luogo spugnoso, zona mista e insicura dove tutto può accadere. Ma, appunto, nella zona mista tutto può accadere, e qui sta la grandezza etica ed estetica del film.

Tra i polacchi c’è chi mantiene la sua rigidità da cane da guardia e chi sta male nel ruolo di carnefice. Qualcuno fa l’attivista e mette a rischio la propria vita pur di salvare quelle degli altri, qualche poliziotto si interroga sul da farsi e agisce di conseguenza: il film avanza in un crescendo di tensione acuita dal bianco e nero a volte sgranato, dalla violenza della macchina a mano, dal fuoricampo elusivo. Tra chi continua a morire e chi continua a inseguire i poveracci, si infila la coscienza. Coscienza del cinema oltre che dell’uomo. E coscienza dell’uomo perché lo è del cinema, in una sintonia in cui il cinema aiuta l’uomo a ritrovare la sua lingua e la sua identità umanista (ricordate cosa diceva Godard nelle Histoire(s) du cinéma a proposito dell’Italia del dopoguerra?)

Il cinema come testimone, espressione asciutta e quasi essiccata della tragedia. Non ci sono orpelli narrativi, non c’è l’estetica del sangue di matrice americana. Le cose sono lì. Il film, che era nato come dramma della non comunicazione, diventa manifesto di una comunicazione muta, frutto di due sguardi che si incrociano e si capiscono nella sequenza culminante del sottofinale, parlano con gli occhi comandati dal cuore. Viene alla mente la lezione di Rossellini, del Rossellini di Paisà. Anche lì stranieri che non comunicano finiscono per intendersi con gli occhi.

C’è anche un’altra Polonia nel finale del film, quella che il 26 febbraio del 2022 apre le porte a due milioni di ucraini. Lì l’Europa e la Polonia mostrano il confine dal volto umano. Perché allora trentamila persone provenienti dall’Asia o dall’Africa, e forse molte di più, sono morte dall’inizio della crisi nel 2014 nel tentativo di forare confini che per loro sono impermeabili?

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