A quasi un anno dalla scomparsa di Mahsa Amini, pestata a morte dalla polizia morale per non aver indossato correttamente il velo, il movimento di protesta è ancora attivo in Iran nonostante la dura repressione del regime. Arresti, torture e condanne a morte sono diventati sempre più frequenti e le autorità si preparano a stringere ancora di più la morsa sui manifestanti grazie a una nuova legge sul velo e all’intelligenza artificiale.

Come riporta la Ong Article 19, le autorità iraniane hanno dichiarato in diverse occasioni di aver iniziato ad usare il riconoscimento facciale per identificare le donne che non indossano il velo. In questo modo sarebbero in grado di sanzionarle anche a giorni di distanza e senza bisogno dell’intervento diretto della polizia. La notizia dell’impiego dell’AI è stata data anche dai media vicini al Corpo delle guardie rivoluzionarie, con l’agenzia Fars che ha persino mostrato in tv come funziona il nuovo sistema di repressione per intimidire ulteriormente chi si ribella alle regole sul velo.

Ad aiutare il regime in queste operazioni è il database nazionale creato dal 2015 in poi in cui sono conservati i dati biometrici dei cittadini, come ad esempio quelli riportati sulle carte di identità. Proprio su questo punto diversi esperti hanno espresso le loro perplessità, come riportato da Article 19: i soli documenti di identità potrebbero non essere sufficienti per identificare in maniera corretta la persona che ha violato le leggi iraniane e non è nemmeno detto che l’Iran sia già dotata delle tecnologie necessarie per questo tipo di operazioni. La sola possibilità che queste operazioni siano condotte, tuttavia, ha di per sé un forte impatto psicologico ed è sufficiente per intaccare la resilienza del movimento di protesta. L’Iran inoltre non è nuovo all’uso della tecnologia per scopi repressivi. Sotto il precedente governo, guidato da Hassan Rouhani, sono stati avviati alcuni progetti per controllare internet e in particolare i social media, anche se non sempre con risultati ottimali. Un altro caso emblematico dell’uso della tecnologia a fini repressivi è quello di Isa Saharkhiz, attivista arrestato nel 2009 grazie a un sistema per le intercettazioni e la sorveglianza rilasciato da Nokia-Siemens.

Il fatto che le autorità iraniane stiano investendo in tecnologie per il riconoscimento facciale, dunque, non è per nulla sorprendente. A confermare l’ipotesi che Teheran si stia dotando di questi sistemi è anche l’aumento delle denunce che arrivano alle Ong. Secondo quanto documentato da Amnesty International, sempre più donne hanno ricevuto una notifica telefonica per aver infranto le regole sull’hijab mentre erano alla guida o subito dopo essere scese dalle auto, con tanto di fotogramma che testimonia l’infrazione. Dal 15 aprile – prosegue il report – la polizia ha inviato circa un milione di sms di avvertimento a donne fotografate senza velo mentre erano in auto e più di mille in cui veniva richiesto il fermo dei veicoli, mentre sono state confiscate almeno 2mila automobili e segnalati più di 4mila comportamenti recidivi alla magistratura del paese. Inoltre, sono stati raccolti 108.211 rapporti sul mancato rispetto delle leggi sul velo all’interno di esercizi commerciali, con almeno 300 persone identificate e segnalate alla magistratura.

Ad aiutare l’Iran nella creazione di un sistema di sorveglianza digitale è principalmente la Cina, come riportato già nel 2021 in un rapporto di Ipvm, una società che monitora il settore della sorveglianza e della sicurezza. Nello specifico, l’azienda che fa affari con Teheran è la Tiandy, leader nella produzione di telecamere di sorveglianza e che vanta tra i suoi acquirenti il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche e la polizia. Anche la ditta Huawei è sospettata di aver venduto all’Iran attrezzature progettate per identificare digitalmente i manifestanti, mentre secondo alcuni report il governo avrebbe usato a questo scopo anche le telecamere di sorveglianza stradale realizzate nelle sedi olandesi e svedesi e Bosch. I prodotti dell’azienda sono stati venduti all’Iran per il semplice monitoraggio del traffico, ma sono state successivamente modificate con dei software ottenuti dalla danese Milestone Systems per reprimere il dissenso, come dimostrato dal gruppo hacker Ghiyam Ta Sarnegouni.

Il riconoscimento facciale però non è l’unica preoccupazione dei manifestanti. Il parlamento sta discutendo una nuova legge in cui la mancanza del velo è identificata come “nudità”, con un conseguente aumento delle sanzioni e delle pene. Secondo la bozza in discussione, chi si ribella – sia online che offline – all’obbligo dell’hijab o si esprime contro il suo utilizzo rischia una multa, l’applicazione di restrizioni al viaggio e il blocco dell’accesso a internet da 6 mesi a 2 anni. Inoltre, il disegno di legge propone di detrarre direttamente l’ammontare delle multe dai conti bancari del trasgressore e di confiscare i passaporti senza alcun procedimento giudiziario. Questa legge, unita al riconoscimento facciale, non fa che aumentare la pressione sui manifestanti e in particolare sulle donne, la cui ribellione contro l’hijab è sempre meno tollerata dalle autorità.

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