Gli ucraini con poco più di venti droni – dal valore complessivo uguale a quello di tre Fiat Panda 4X4 nuove di concessionaria – lanciati contro l’aeroporto militare di Pskov e non andati a bersaglio alla cieca ma accompagnati da altri droni per guidarli sugli obiettivi, hanno provocato un danno – tra missili intercettori sparati inutilmente, infrastrutture danneggiate e aerei da trasporto strategico Ilyushin Il-76 distrutti o resi inutilizzabili – per un valore complessivo di quasi mezzo miliardo, vale a dire lo 0,6% del budget militare russo del 2023 e il 5% della flotta di questi “giganti dell’aria” disponibili in Russia. È economico il primo paradosso di quella che i media hanno chiamato – per assonanza col titolo originale del Trono di spade – la “guerra dei droni” tra Kiev e Mosca: la possibilità di infliggere a poco costo all’avversario un danno quasi irreparabile nel medio-lungo periodo e finanziariamente spesso insostenibile.

Il paradosso però è più profondo: anche i russi utilizzano questi mini-velivoli senza pilota, ma non disponendo del know-how li hanno dovuti importare dall’Iran e presto cominceranno a produrli sul loro territorio su licenza di Teheran. In entrambi i casi, sono a carico dello stato russo l’acquisto, la logistica, l’addestramento, i costi industriali ecc. Insomma, giocando da sola Mosca non riesce a distribuire le perdite su qualcuno diverso dal bilancio del governo e finisce per trasformare un passivo del ministero della Difesa in una pioggia di rubli svalutati. Viceversa, Kiev – che pure acquista direttamente droni e razzi da imprese locali e soprattutto dai turchi – impiega spesso la costosissima difesa terra-aria per abbattere droni iraniani da ventimila dollari l’uno ma grazie alle forniture occidentali riesce a trasformare un passivo dei ministeri della Difesa degli alleati in investimenti nelle industrie della difesa e per riflesso nel mercato del lavoro di decine di Paesi. Ma non solo: investendo aiuti finanziari occidentali nello sviluppo dell’industria, tra cui quella bellica locale, può attaccare il territorio della Federazione russa usando droni e missili autoprodotti, senza impiegare armi occidentali contro i russi.

Un altro paradosso è ancora più stupefacente: i russi possono colpire infrastrutture e edifici ucraini a partire dal proprio territorio o da aree occupate, mentre gli ucraini agiscono – anche loro – dal proprio territorio ma anche da quello russo, senza aver dovuto investire nell’occupazione manu militari delle aree da cui partono i droni. La differenza, quindi, è che Mosca sopporta i costi dell’occupazione dei territori ucraini – costi umani, militari, finanziari e politici importantissimi-, mentre dall’altra parte gli uomini di Budanov, capo del servizio segreto militare ucraino, e Zaluzhny, comandante in capo delle Forze armate di Kiev – usando agenti di Kiev e partigiani russi antiregime in Russia – hanno un asset praticamente gratuito a disposizione.

C’è, poi, un paradosso tattico-logistico: i droni ucraini arrivano dall’estero o da una miriade di mini-officine in cui i micro-aerei senza pilota vengono assemblati, modificati, riparati e armati. È altamente probabile che una parte cospicua di questo processo – compresa la produzione – avvenga anche direttamente in territorio russo per attacchi da portare lontano dai confini, potenzialmente anche nella Russia profonda. La cosa è stata così difficile da accettare per i sostenitori di Putin e i nazionalisti russi che per molti giorni blogger e analisti russi hanno discusso se Lukashenko stesse facendo il doppio gioco consentendo l’uso del territorio bielorusso per gli attacchi o se addirittura i Paesi baltici si fossero resi disponibili come basi di lancio. In entrambi i casi, si erano levate ardenti richieste al Cremlino di rispondere con un attacco contro il tradimento di Minsk o l’intromissione di Stati membri della Nato. Niente di tutto questo: gli attacchi erano partiti dal cortile di casa, probabilmente da decine di località.

Paradossale è, infine, il fatto che a circa 550 giorni dall’inizio della guerra e dopo quasi un anno di uso di droni, le difese di entrambe le parti siano ancora in gran parte inadeguate e intercettino tra il 60 e il 90% degli attacchi: se Kiev non cessa di chiedere forniture adeguate e celeri ai partner occidentali, Mosca – che, come abbiamo già detto, compra all’estero – non possiede missili intercettori di qualità e non dispone nel territorio secondo una strategia precisa di difesa efficiente quelli che comunque ha. Probabilmente, aggiunge, anche i loro radar sono inadeguati a “vedere” i droni. Ma, dico io, evidentemente i pochi “amici” di Mosca rimasti non dispongono di tecnologie adatte o non le vogliono condividere per il rischio di perdere il know-how. In uno scenario del genere, prevenire è meglio che curare: da una parte e dall’altra sta partendo la “caccia alla catena logistica dei droni”, oltre alle fabbriche e agli aerei dove sono prodotti i missili. Come l’attacco ucraino della scorsa settimana, bada caso condotto con queste piccole armi quasi invisibili e – secondo testimonianza – fatte anche col cartone per beffare anche i radar più moderni.

A proposito degli attacchi portati dagli ucraini nel territorio russo, l’ex comandante dell’esercito americano in Europa e gran conoscitore delle dinamiche della guerra in atto, il generale Ben Hodges, ha spiegato che finora non ha visto né sentito alcuna preoccupazione seria o richiesta di moderazione da parte dell’amministrazione statunitense, della Nato o di qualsiasi altra capitale occidentale. Nessuna richiesta del genere dovrebbe esserci: l’Ucraina ha il diritto di difendersi secondo la Carta delle Nazioni unite. Sarebbe troppo, mi ha detto, anche per gli apologeti più estremisti del Cremlino e per coloro che continuano a temere l’escalation russa. Tra l’altro, ha aggiunto, Kiev ha continuato a sorprendere gli scettici sulle proprie capacità e ora anche nella produzione di droni e altre armi. D’altronde, ha spiegato, l’Ucraina era il cuore dell’industria della difesa sovietica durante la Guerra fredda e ha il know-how per far crescere qualità e quantità.

Probabilmente, anche per questo, come detto, nei prossimi mesi assisteremo alla “caccia” alle infrastrutture per la produzione e la logistica dei droni: attualmente, secondo la Casa Bianca, le navi russe trasportano droni iraniani attraverso il Mar Caspio fino a Makhachkala, in Russia, località da cui vengono trasferiti in due basi: una a nord-est dell’Ucraina e una a est dell’Ucraina. Il fatto di poter operare direttamente in territorio russo – cosa non sorprendente, visto che Prigozhin e le sue truppe poco più di due mesi fa avevano marciato quasi su Mosca e a fine maggio poche centinaia di “legionari” e volontari russi filoucraini avevano messo in croce le difese russe a Belgorod – potrebbe presto consentire a Kiev di colpire tutta questa catena di approvvigionamento, oltre alla fabbrica dove saranno prodotti i droni. Allo stesso modo, Mosca – se non continuerà a disperdere il tiro su infrastrutture e edifici civili – potrebbe intensificare gli attacchi sui possibili depositi di questi micidiali velivoli. Attacchi che, da una parte e dall’altra, saranno fatti ovviamente per mezzo di sciami di droni.

Articolo Precedente

Germania, la coalizione di governo fa il tagliando e punta su esenzioni fiscali e meno burocrazia: ma non mancano i dissapori

next
Articolo Successivo

Papa Francesco e “il saluto al nobile popolo cinese” dalla Mongolia: il messaggio in vista della missione di Zuppi in Cina

next