di Nadia Aragona

Quando ho sentito di sfuggita la notizia, ho subito rigettato il pensiero, non voglio sentire, non voglio sapere, mi fa troppo male. Poi ho pensato che accantonare la cosa era come accettarla passivamente. Con grande sofferenza quindi ho letto e riflettuto su quanto accaduto al festeggiamento di un diciottesimo compleanno in un agriturismo, e cioè l’uccisione a calci di una capretta da parte di un gruppo di ragazzi. I ragazzi che hanno ucciso la capretta pare certo che fossero ubriachi o comunque avessero assunto sostanze che alteravano il loro stato percettivo.

La prima domanda che mi sorge, dal momento che mi pare di aver capito che fossero presenti i genitori dei ragazzi, perché un genitore lascia che suo figlio si ubriachi in quel modo o comunque che finisca in quello stato? Come può un genitore non essere preoccupato del futuro del figlio nel vederlo in quello stato? Altro fatto sconcertante è che l’episodio è stato ripreso dagli stessi e postato sui social per ottenere visualizzazioni e “like”. L’importante è stupire, fare qualcosa di mai visto prima, in mondo nel quale non c’è più nulla che stupisce i ragazzi. Questi comportamenti violenti, questa aggressività, questa brutalità senza motivazione mi riporta a ciò che è diventato nella nostra epoca l’emblema del male assoluto, il nazismo.

Nei campi di concentramento nazisti, l’ebreo perdeva la sua natura di essere vivente senziente, per acquisirne una di “cosa”. I nazisti che lavoravano nei campi erano persone “normali”, avevano famiglia, affetti, provavano sentimenti. Erano ligi esecutori di ordini, impiegati modello, la sera tornavano a casa dai loro bambini e magari quel giorno nel campo avevano gettato nei forni bambini ebrei vivi (è stato fatto anche questo: era stato dato l’ordine di aumentare il numero delle eliminazioni e le camere a gas non erano sufficienti). “La banalità del male” ci sgomenta perché ci fa sorgere il dubbio che anche noi potremmo divenire come quei nazisti.

Ecco io vedo nella violenza gratuita di quei ragazzi la stessa banalità del male. Potrà sembrare un paragone eccessivo, che trasforma una “bravata” in un crimine efferato. Banalizzando la vicenda ci facciamo complici di questo male. La capretta per quei ragazzi aveva perso il suo status di essere vivente, per acquisire quello di oggetto per divertirsi, per stupire. Al posto della capretta poteva esserci un vagabondo, una prostituta. Davanti a cosa si sarebbero fermati? E si sarebbero fermati? Che il loro stato mentale fosse alterato da alcol o da sostanze psicotrope, fa differenza? Erano in grado di intendere e volere? Dal punto di vista della capretta o di qualunque altra vittima, non fa differenza.

Per alleggerire la loro posizione possiamo dare loro un’attenuante di tipo sociologico: sono vittime anch’essi di una società priva di valori positivi. Al di là comunque di quella che può essere la mia lettura di quanto accaduto, esistono degli studi che ci dicono che chi maltratta gli animali è più predisposto anche agli abusi e alla violenza domestica. Lo stesso Oms considera questo genere di abusi fra gli indicatori del “disturbo della condotta”.

Ancora peggio di questi ragazzi sono i genitori che li difendono. La madre di uno di loro ha tentato di giustificare il fatto dicendo che la capretta era già morta. Mi chiedo se tale affermazione viene dall’impossibilità di accettare che suo figlio possa aver fatto una cosa del genere, perché è l’unica motivazione sensata che mi viene in mente.

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