“Chtche ne vmerla Ukraïny”, l’Ucraina non è ancora morta. L’inno nazionale accompagna il lento issarsi della bandiera nazionale con le firme di centinaia di combattenti. Si celebra un simbolo della libertà ucraina. Lo rappresenta una statua. Battezzata “Madre Patria” di Kiev. In realtà, è una vecchia gigantesca statua eretta dai sovietici e restaurata da Zelensky che l’ha inaugurata alla vigilia del giorno dell’Indipendenza, indossando una verde giubba storica: il 24 agosto del 1991 è la fatidica data della dichiarazione che sanciva la separazione dall’Unione Sovietica (il video è in Rete da ieri).

Gli ucraini si aspettano un raid dei russi mirato per abbatterla. Per Kiev, è una sfida. Per Mosca, una punizione. Alla storia non si scappa, certi eventi non li puoi negare. I sovietici, non a caso, avevano replicato lo stereotipo retorico presente nei grandi centri dell’Urss, ossia quello della donna combattente (sorta di Atena comunista) che impugnava nella mano destra una spada puntata al cielo e nell’altra uno scudo sul quale erano scolpite falce e martello, con lo sguardo fiero diretto ad est, puntato sull’orizzonte russo e su Mosca, cuore del potere sovietico. Ora lo scudo riporta il tridente, che è lo stemma della resilienza ucraina. Un facile bersaglio che sovrasta la capitale ucraina. Troppo ghiotto per Putin, che ha anche un altro motivo per detestare la data del 24 agosto 1991.

In quello stesso giorno, mentre l’Ucraina conquistava la sua autonomia da Mosca, Michail Gorbaciov si dimetteva dalla carica di segretario generale del Pcus, la carica più potente dell’Urss, dopo giorni drammatici in cui il complotto per rovesciarlo era quasi riuscito, e un colpo di Stato era stato sventato solo in extremis. I due fatti erano strettamente collegati, anzi, uno era la causa del secondo. Per la cronaca, Volodymir Ivasko sostituì Gorbaciov, ma il suo era soltanto un interregno. Il 29 agosto si dimise: era l’inizio di un gran repulisti. Boris Eltsin, il presidente della repubblica sovietica della Russia che era riuscito ad annullare il golpe capitanato dal Kgb, da una moltitudine di generali e da quasi tutti i membri del governo, emanò il decreto numero 83 col quale si ordinava il trasferimento degli archivi del Pcus alle autorità dell’archivio di Stato. Un atto fondamentale, per sollevare – se non tutti – molti dei misteri e dei crimini in nome e per conto del regime comunista.

Ma è necessario riannodare brevemente i fili della storia di quegli anni, per capire il putsch d’agosto e la fine politica di Gorbaciov, sovrastato dalle dinamiche geopolitiche che lui stesso aveva innescato, sottovalutandone l’esplosività: lui non voleva la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ma la sua modernizzazione e una maggiore democrazia, oltre ad una liberalizzazione della società.

Andiamo per gradi. Gorbaciov ascende alla carica di segretario generale del Pcus nel 1985, quando l’Urss è in piena crisi economica. Lui e il suo staff hanno in serbo una soluzione: la perestroijka e la glasnost, cioè la ristrutturazione dell’apparato elefantiaco ed obsoleto dell’industria sovietica e la trasparenza degli interventi statali. Una rivoluzione che allarma la destra del Pcus, gli apparati dello Stato e la nomenklatura. Sanno di essere nel mirino di Gorbaciov che vuole combattere la corruzione endemica e l’inefficienza. I timori dei cacicchi sovietici non è senza ragioni: la liberalizzazione imposta da Gorbaciov è recepita nelle repubbliche più remote, come in quelle baltiche e in quelle caucasiche, come un invito ad emanciparsi.

I rigurgiti nazionalisti anticipano le loro richieste di separazione. Già nel 1989 la liberalizzazione gorbacioviana e la liberazione dei detenuti politici reclusi nei gulag spingono gli ucraini ad organizzarsi per richiedere e difendere i loro diritti alla sovranità. Nasce allora il movimento nazionalista ucraino Rukh. Nelle elezioni del marzo 1990, il blocco democratico sfiora il 25 per cento dei seggi alla Duma nazionale. Ma questa minoranza è in grado di influenzare il parlamento che adotta il 16 luglio 1990 la Dichiarazione sulla sovranità politica della Repubblica d’Ucraina. E’ il primo concreto passo verso l’indipendenza completa. Ed è in questo turbolento contesto che interviene il Kgb: i servizi segreti cominciano a tramare contro Gorbaciov e i giovani tecnocrati e ideologi della perestroijka che lo affiancano.

Il pretesto per aggregare politici, ministri e persino il premier, oltre ad allertare generali ed ufficiali delle Forze Armate, delle forze speciali (Omon, Odon) e della polizia, sono le ribellioni delle repubbliche baltiche che nel 1990 dichiarano la loro scissione dall’Urss. L’esempio è seguito dalla Russia il 12 giugno, che limita le applicazioni delle leggi sovietiche, specie quelle che riguardano economia e finanza. Gorbaciov è messo con le spalle al muro: nel gennaio del 1991 autorizza l’impiego dell’Armata Rossa per riprendere il controllo della Lituania, con aspri combattimenti. Una settimana dopo, è il turno della Lettonia, dove le autorità locali vengono destituite. La crisi, tuttavia, incalza. In Russia c’è penuria di tutto: medicinali, cibo, persino la benzina. La popolarità di Gorbaciov è al lumicino. Gli avversari sfruttano la rabbia della gente e nel referendum del 17 marzo 1991 sulla conservazione dell’Urss (boicottato dai baltici, dai georgiani, dagli armeni e dai moldavi), il 77,85 per cento vota per una rinnovata federazione di repubbliche uguali e sovrane.

Dopo serrati e tempestosi negoziati, otto repubbliche approvano il nuovo Trattato dell’Urss quale unione di stati sovrani con presidente, politica estera e militare in comune. La firma è prevista per il 20 agosto, a Mosca. Nel frattempo, i negoziati proseguono e alle otto repubbliche se ne aggiungono altre quattro, tra cui l’Ucraina, pronte a sottoscrivere l’accordo (non le tre repubbliche baltiche). Ma altre nubi si addensano all’orizzonte. Il 28 giugno viene sciolto il Consiglio di mutua assistenza economica. Il primo luglio è il turno del Patto di Varsavia. Gorbaciov accusa stress. Ha bisogno di ricaricarsi. Pensa di farlo in Crimea, nella dacia presidenziale di Capo Foros. Sa che sul suo capo pende la spada di Damocle di un potenziale golpe. Aleksansdr Jakovlev lo aveva avvisato già nel luglio del 1990 che poteva succedere dopo il XXVIII Congresso del Pcus.

C’erano stati altri inquietanti segnali. L’11 dicembre del 1990 Vladimir Kryuchkov, presidente del Kgb, aveva rivolto un “appello all’ordine” da un canale tv della Televisione Centrale Sovietica. Lo stesso giorno (si sarebbe saputo anni dopo) aveva incaricato due ufficiali dei servizi di preparare un piano di misure da adottare nel caso in cui fosse stato dichiarato lo stato d’emergenza nell’Unione Sovietica. Sono i tasselli di un complicato puzzle: poco per volta, Kryuchkov coinvolge nella cospirazione il premier Valentin Pavlov, il ministro della Difesa Dmitrij Jazov, quello degli Interni (Boris Pugo), il vicepresidente Gennadij Janaev, il vice capo del Consiglio di Difesa Oleg Baklanov, il capo del segretariato di Gorbaciov e il segretario del Comitato Centrale del Pcus, Oleg Senin. Gorbaciov non può non averne avuto sentore. Ma tiene duro. Gli altri non demordono. Viene creato un Comitato Statale per lo Stato d’Emergenza, il cui scopo è ripristinare l’ordine (sovietico). Gorby non cede alle richieste di decretare lo stato d’emergenza. Il 17 giugno del 1991 Pavlov richiede poteri straordinari al Soviet Supremo, ma Gorbaciov si oppone.

Mosca ribolle di intrighi. E di mosse disperate. Come quella del sindaco Gavril Popov che incontra l’ambasciatore a Mosca degli Stati Uniti (Jack F. Matlock jr.) e lo informa di quel che sta succedendo. Il segretario di Stato Usa, James Baker, a sua volta avvisa il suo omologo russo Aleksandr Bessmertnych. Cosa poi abbia riferito a Gorbaciov non è ancora molto chiaro, ci sono versioni contrastanti. Fatto sta che il 23 luglio del 1991, sul quotidiano Sovestkaja Rossija appare un articolo intitolato “la parola al popolo”, firmato da alcuni funzionari del Pcus e da alcuni intellettuali vicini al partito in cui si chiedono azioni decise per prevenire catastrofi. Ormai è guerra senza quartiere. Il 29 luglio Elstin e Nursultan Nazarbaev, presidente kazako, ipotizzano di disintegrare il governo, cacciando Pavlov, Jazov, Pugo, nonché di destituire Kryuchkov, sostituendo il premier con lo stesso presidente kazako. Ma da mesi il Kgb ha piazzato cimici ovunque. Peggio, a farlo è una guardia del corpo di Gorbaciov, tale Vladimir Medvedev.

Gorby parte per la Crimea il 4 agosto, prevede di rientrare a Mosca il 19. Il 17 i membri del Comitato Statale per lo Stato d’Emergenza, cioè i complottisti, decidono di agire ed isolare Gorbaciov, bloccando ogni comunicazione da e per la dacia. Nel frattempo si organizzano le forze militari golpiste, che sono dislocate a Mosca e nelle maggiori città. Una delegazione incontra Gorbaciov, ma finisce ad insulti. I membri del comitato ordinano ad un’azienda di Pskov 250mila paia di manette, oltre a 300mila moduli per gli arresti. Il Kgb emette una lista di ricercati, tra i quali spicca Boris Eltsin. Vengono raddoppiate le paghe degli agenti Kgb. Kryuchkov diffonde un comunicato in cui sanziona la fine della perestroijka. Nella notte tra il 18 e il 19 agosto, la Tass lancia un dispaccio in cui si afferma l’incapacità di governare da parte di Gorbaciov, per ragioni di salute. Poco più tardi, sempre la Tass avvisa che è in atto lo stato d’emergenza e che durerà sei mesi. Messaggio ripetuto da radio e tv, seguite poi per tre giorni dalla musica del Lago dei Cigni, secondo tradizione sovietica quando il Paese è in lutto o è sotto attacco.

Sulle ore convulse che seguirono questi annunci e su come Eltsin riuscisse ad evitare gli arresti, ci sono tonnellate di saggi e centinaia di pagine web. Il risultato è che alla fine la mobilitazione popolare e la titubanza di molti ufficiali evitarono il peggio. Fallisce l’Operazione Grom per la conquista della Casa Bianca, i membri del complotto sono arrestati e imprigionati. Gorbaciov torna, ma è Eltsin a dettare le condizioni. Deve lasciare la carica. Lo fa contestualmente alla firma dell’indipendenza ucraina, il 24 agosto di 32 anni fa. Confermata successivamente dal referendum del primo dicembre del 1991: il consenso è del 92 per cento.

In quei giorni, Vladimir Putin lavora alla dipendenze dirette di Anatolij Sobtchak, professore di diritto, primo sindaco non sovietico di Leningrado, che aveva ripreso il nome originario di San Pietroburgo nel 1991. Il sindaco, che si disinteressa degli affari correnti, lo incarica di gestire soprattutto gli affari con l’estero. Una missione nella quale Putin si getta senza riserve ma in cui opera anche nell’ombra. Mentre l’Ucraina abbandona la Russia e Putin maledice la dissoluzione dell’Urss, promettendo a se stesso che un giorno tutto sarebbe tornato come una volta, c’è chi indaga sulle sue presunte spericolate attività ed intermediazioni. Ufficialmente, minerali, petrolio e legname sono venduti in cambio di prodotti alimentari per rifornire l’affamata San Pietroburgo. Salvo che i primi partono, i secondi arrivano a fatica.

Ovviamente non ci sono prove documentali. Una deputata locale, Marina Salié, aveva tentato di far luce su questi traffici, pubblicando un documento che metteva in causa Putin. Il dossier fu insabbiato dal sindaco: scelta dettata da realismo politico. Voleva evitare una crisi in un momento di transizione assai delicato e pericoloso. Putin, intanto, aveva arruolato nei ranghi del municipio parecchi ex agenti del Kgb, legati alle gang che controllavano il porto. Cekisti devoti che lo seguiranno a Mosca.

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