La vicenda di Robert Oppenheimer, nonché il presente battage mediatico legato al film di Nolan e alle trasmissioni conseguenti, non so quanto consapevolmente, ci riporta e obbliga a una riflessione – non nuova – sui rapporti tra scienza e morale, tra etica e ricerca, aprendo a un dibattito e a scelte, che alcuni credevano morte e sepolte per sempre… perché “la scienza deve andare per la propria strada”, “la ricerca ha come unico freno le nostre conoscenze”, come ci siamo sentiti ripetere in maniera più o meno grossolana dalla metà del XIX secolo in poi.

Per i pochi che non lo sapessero, Robert Oppenheimer, fisico americano di origine tedesca, proveniente da una benestante famiglia ebraica non osservante, ma educata a forti motivazioni etiche, fu l’uomo scelto dal governo americano – dal presidente Roosevelt e dal generale Groves – per portare a termine la costruzione di una bomba atomica (a fissione), prima che un ordigno analogo fosse realizzato dalla Germania nazista e – verosimilmente – potesse determinare il corso della guerra. Non sarà quindi inutile ricordare che la scelta di affidare la guida di un progetto di così grande importanza e altissimi costi a un uomo come il fisico americano allora docente a Berkeley, non fu certamente legata solo alle sue doti di scienziato. Teorico geniale, ma non il migliore del suo tempo, autorevole per il fascino personale e per le doti di coordinamento, forte di solidissimi contatti al più alto livello con i maggiori fisici del tempo, anche europei. Infine, c’è da ritenere che fin dagli inizi una delle motivazioni che fecero scegliere Oppenheimer per dirigere la fase terminale del progetto Manhattan, risiedesse proprio nella sua giovanile vicinanza con il Partito comunista americano, che lo indeboliva al punto da renderlo più agevolmente disponibile a seguire la volontà politica del Governo Usa.

La fine della storia ci racconta che dopo esser riuscito a portare a termine per l’estate del 1945 la costruzione della prima bomba atomica, dopo essere stato esaltato come l’uomo che decretò la fine della guerra, Oppenheimer fu preso da una profonda crisi di coscienza che lo convertì su pubbliche posizioni pacifiste, invise al Governo americano, e che alimentarono, proprio in nome del suo “passato” comunista, una vera e propria persecuzione morale e fisica, fino alla sua morte prematura nel 1967.

D’altronde, Oppenheimer, pur conoscendo molto bene e fin dagli inizi le conseguenze e le possibili ulteriori applicazioni degli studi (teorici) sulla fissione nucleare, aveva ritenuto in una prima fase – ingenuamente, come dimostreranno i fatti conseguenti – che fosse in ogni caso doveroso realizzare un ordigno di morte sulla base di queste ricerche, al fine esclusivo di impedire che altri ne facessero un uso analogo e precedente contro il popolo americano o i loro alleati. In effetti forte di questa convinzione, ancor prima del fatale agosto 1945, Oppenheimer aveva sconsigliato l’utilizzo della sua bomba su una città fortemente abitata, anche se ciò non gli aveva impedito contraddittoriamente di contribuire alla individuazione della città di Hiroshima e all’indicazione delle modalità per massimizzare i danni dell’esplosione atomica.

Dietro la vicenda in tutti i sensi tragica di Robert Oppenheimer si cela forse il più urgente e il più importante problema dell’umanità. Realizzare la bomba atomica non era una questione di conoscenze scientifiche. Fin dal 1938 si sapeva che era possibile sprigionare l’energia dell’atomo tramite fissione. Lo aveva dimostrato il lavoro di Hahn e Strassman; lo sapeva Niels Bohr, il fisico danese, massimo esperto per quegli anni, lo sapeva probabilmente anche Werner Heisemberg, il fisico che poi di fatto non condusse il regime di nazista alla costruzione di una bomba atomica; lo sapeva Albert Einstein che non volle partecipare al progetto Manhattan; lo sapeva Enrico Fermi, che da Roma aveva scelto di trasferirsi negli Usa e che con i suoi studi rese possibile la produzione dell’uranio arricchito in quantità sufficiente; lo sapeva infine – crediamo – soprattutto il grande genio italiano della fisica, quell’Ettore Maiorana, che anche secondo Leonardo Sciascia, dopo una lite furiosa proprio con Enrico Fermi (“non c’è bisogno di costruire una bomba per dimostrare la fissione dell’atomo”) decise di “scomparire” per non essere in alcun modo complice di una scienza che potesse portare alla distruzione dell’umanità.

La costruzione della bomba atomica non fu quindi un problema di conoscenza, ma un più banale problema politico e industriale. Sicché in molti – non solo Oppenheimer – anche dopo Hiroshima, con la realizzazione della molto più potente bomba H all’idrogeno, fecero pressioni sul governo americano perché la tecnologia atomica fosse di libera conoscenza e non solo un’arma (spuntata) per minacciare i propri avversari, al contrario di fatto solo un mezzo per innescare quella corsa agli armamenti e al terrore che conosciamo… Una storia triste dalla quale ancora non ci siamo liberati. Una storia che dovrebbe insegnarci a distinguere tra ricerca scientifica teorica e applicazione pratica di essa. Dove mentre la prima deve essere libera e sostenuta possibilmente a 360 gradi, la seconda va invece limitata e sottoposta a forti e condivise leggi morali. E invece oggi accade ogni giorno il contrario. In particolare, va limitata la “ricerca scientifica” che risponde solo a interessi (in genere esclusivamente economici o politici) che nulla hanno a che fare con il progresso e il bene dell’umanità. E la responsabilità di questo spetta agli scienziati, quelli veri.

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