Era posto in vista, su uno spazio aperto che domina gli altipiani cimbri. Così aveva voluto il suo creatore, Marco Martalar, nell’autunno di due anni fa: da allora migliaia e migliaia di visitatori arrivavano in una sorta di pellegrinaggio con l’arma del telefonino pronta per l’immancabile selfie. Ieri notte, intorno alle 22, il famoso Drago di Lavarone se ne è andato in un rogo improvviso, lanciando nel cielo lingue di fuoco e volute di lapilli. I vigili del fuoco sono accorsi subito, ma già la pira si stava esaurendo. Non rimaneva più niente da fare, se non mettere in sicurezza il bosco vicino.

Il Drago era alto sei metri, lungo sette, ed era il risultato dell’unione di duemila legnetti, rami e schegge recuperati dagli schianti della tempesta Vaia. Dato il soggetto fantastico, dato il materiale di recupero che lo costituiva, data la collocazione in una radura-pulpito ideale, il Drago era colmo di significati sottesi, lo sapevano tutti fin dall’inaugurazione, e avrebbe aperto la strada al giovane scultore cimbro Martalar a una serie di opere pubbliche di grandi dimensioni all’interno del progetto “Opere Vaia”: la Lupa del Lagorai, l’Aquila di Marcesina, il Gallo di Gallio.

Nel Drago, opera di grande impatto emotivo, personalmente ci vedevo un’aggressività ingenua che non mi incantava, ai confini del pacchiano. Attirava però migliaia di turisti e sul sito VisitTrentino era definito “Potenza di fuoco”. Era un motivo per accorrere a Lavarone e farsi un selfie. Il Drago era il simbolo di Lavarone e della rinascita post-Vaia, come è stato detto. Ma era anche il simbolo del turismo del selfie. Il giovane sindaco Isacco Corradi – ottimo amministratore pieno di idee per lanciare il turismo in chiave culturale nel rispetto dell’ambiente – mi aveva descritto le migliaia di persone che arrivavano richiamate dall’animale fantastico. Un messaggio per sensibilizzare le coscienze sui cambiamenti climatici (attraverso la tragedia di Vaia) e sul dato effimero della natura. Effetti collaterali – non voluti – erano intasamento, parcheggi selvaggi sui prati, code per andare alla località Magré dove appariva quella semi divinità pronta allo scatto.

Veniva annoverato nella corrente della Land Art, opere costruite con materiali naturali del luogo destinate a degradarsi e sparire in silenzio tornando natura. Martalar aveva scelto di non trattare il legno, proprio per non interferire con i processi di disfacimento. Questo era dunque il destino del Drago, non l’immortalità che si auspica all’arte. E, al di là del dispiacere per una perdita di un’opera comunque di valore, non si sarebbe potuto costruire un’uscita di scena più adeguata aumentando a dismisura il valore dei selfie che ha permesso di scattare.

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