di Fridays for Future Sardigna

Di energia in Sardegna si parla molto e si litiga anche di più. All’annosa questione del carbone e della Saras si sono aggiunti il piano di metanizzazione, la crisi energetica e, in ultimo, l’arrivo di centinaia di progetti legati alle fonti rinnovabili. Come Fridays For Future Sardigna vogliamo provare a offrire un po’ di risposte alle tante e ai tanti che le cercano.

Energia in Sardegna: un’isola che va a fossile (e a fuoco)

Ci dicono che viviamo in un paradiso terrestre, un’isola incontaminata da proteggere senza toccare. È falso. La Sardegna è una terra avvelenata.

Il sistema elettrico sardo si regge su una certa quota di rinnovabili, installate soprattutto nei decenni dopo il 2008 (circa il 25% nel 2022) e tre grandi poli di produzione fossile. La Saras di Sarroch, che brucia scarti del petrolio, e le due centrali a carbone di Portovesme (ENEL) e Fiumesanto (EP Produzioni). Un macigno di CO2 liberata in atmosfera, ma anche di tutti gli inquinanti legati a queste forme energetiche. Non tutta l’elettricità viene consumata in loco: circa un terzo viene esportata verso il continente.

A loro si aggiunge il resto dell’energia isolana: benzina delle automobili, gasolio dei (pochi) treni, gas dei riscaldamenti domestici e così via. La maggioranza del consumo – e delle emissioni. Tutto rigorosamente fossile.

Di transizione energetica parlano ormai tutti – dalla Regione al Governo alle multinazionali. Ma c’è un criterio per individuare chi fa sul serio: i tempi. Per rimanere in linea con le richieste della comunità scientifica e rispettare i principi di equità, la Sardegna dovrebbe decarbonizzarsi totalmente entro il 2035. Chi nelle istituzioni o nei board delle grandi aziende si riempie le bocca di sostenibilità quasi mai ha davvero in testa queste deadline.

Cosa sta succedendo: un bus senza guidatore

E ora, cosa succede nell’isola?

La metafora migliore per descrivere lo scenario attuale è quella di un autobus senza guidatore, lanciato verso il baratro. Chi dovrebbe tenere il volante, le istituzioni pubbliche, ha abdicato al suo ruolo. E noi riusciamo solo a sbirciare fuori dal finestrino.

L’assenza di regia e di intervento pubblico hanno lasciato mano libera al mercato più sfrenato. Così da un lato assistiamo al piano di metanizzazione, che promette di portare in Sardegna quel gas che dovremmo iniziare ad abbandonare. Dall’altra si moltiplicano le richieste di allaccio alla rete per nuovi impianti rinnovabili. Una buona notizia in sé e per sé, ma anche un’incognita nello scenario attuale. Chi adeguerà le reti per quella energia? Chi assicura che, una volta costruiti, il fossile verrà abbandonato? Di più, chi sa quanti di quei progetti vedranno davvero la luce?

Domande inevitabilmente senza risposta. E siccome questo non ci è dato sapere, ancora meno è possibile discutere di proprietà, royalties, democrazia energetica. Quando lo spazio del mercato è assoluto, quello delle persone comuni diventa nullo.

E quindi?

Finora le sarde e i sardi hanno potuto, nella migliore delle ipotesi, sperare che chi sta in alto prendesse le scelte migliori. Nella peggiore, si sono convinti fosse meglio disinteressarsi del tema.

Noi crediamo oggi serva l’esatto opposto. Perché le persone comuni – il 99% dei sardi che hanno tutto da perdere nella crisi climatica e tutto da guadagnare nella transizione ecologica – tocchino palla, serve un impegno senza precedenti.

La bella notizia è che l’alternativa c’è. Un sistema energetico basato sulle rinnovabili è 100% carbon-free è possibile. L’elettrificazione dei consumi non solo è possibile, ma sarebbe l’occasione per dare alle sarde e ai sardi le case e i trasporti che meritano. Un insieme di regole decise dalla Regione è possibile. Di più. È possibile che le comunità riprendano il controllo della propria energia – sia con le comunità energetiche (vedi i casi virtuosi di Villanovaforru e Ussaramanna), sia con una Agenzia Sarda dell’Energia che installi pale e pannelli in modo oculato e partecipato, basandosi sull’effettivo fabbisogno energetico, redistribuendo in bollette e welfare gli utili.

Arrivare a tutto questo significa, come sempre, fare politica. Da un lato non adagiarsi sui piani delle grandi aziende ma rilanciare, pretendere democrazia e controllo pubblico. Dall’altro non cedere alle sirene dei negazionisti vecchi e nuovi, che con le scuse più varie (ora il paesaggio, ora gli uccelli, ora la Cina) difendono il fossile. Soprattutto, non cadendo nell’apatia. Perché l’errore più grave è pensare che in Sardegna nulla possa cambiare.

Crediamo nelle proposte di cui sopra, e che abbiano le potenzialità per essere senso comune. Fare la transizione non significa solo evitare il collasso climatico – e scusateci se è poco. Significa ridurre i costi in bolletta, liberare risorse per il welfare e la cura, creare un sistema di approvvigionamento e distribuzione energetica che tuteli il diritto a vivere una vita degna per tutte le persone, non solo per gli azionisti delle aziende del settore.

La transizione reale è una transizione gestita dagli abitanti e per gli abitanti.

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