di Leonardo Botta

Guardavo in tv un dibattito sul caro vacanze (sottotitolo: “l’estate salata degli italiani”, ahinoi non solo per le concentrazioni minerali dell’acqua marina) focalizzato su un problema che riguarda milioni di vacanzieri (quelli che non hanno il cinquanta metri ormeggiato a Porto Cervo e il posto riservato al Billionaire o al Twiga Beach Club); i quali, preso atto dell’aumento dei prezzi delle strutture ricettive, affrontano l’antipatico dilemma di come farsi du’ bagni compatibilmente con il proprio budget familiare.

I relatori si confrontavano su se e quali misure dovesse varare il governo per fronteggiare questa bolla inflazionistica, a causa della quale oggi gli stabilimenti balneari (che al sud chiamano “lidi” e al nord “bagni”: appunto, spesso dei “bagni di sangue” per gli utenti) stanno diventando inaccessibili ai più. Qualcuno faceva notare che il diritto alle vacanze non è sancito dalla Costituzione e che, non essendo la nostra una nazione dell’ex blocco sovietico, poco o nulla possa fare il governo rispetto a regole che vedono confrontarsi, in un regime di libero mercato, domanda e offerta.

Dall’altra parte si ribatteva che anche per persone dal basso reddito è più che legittimo rivendicare il diritto di godersi qualche giornata sotto l’ombrellone. Già, l’ombrellone, questo oggetto dei desideri che, nel paese dei molti stabilimenti privati e delle poche spiagge libere, sta diventando insieme con le due sdraio un miraggio per chi deve centellinare i pochi risparmi per un’estate al mare (“voglia di remare…”, cantava Giuni Russo). Insomma, in talune zone le tariffe per il “trittico” da spiaggia ormai superano di slancio i 50 euro: quasi quanto un B&B in bassa stagione!

Intanto, le cronache estive ci raccontano anche un fenomeno che a mio avviso dovrebbe far riflettere: molte strutture (si segnalano particolarmente quelle pugliesi) pare stiano praticando una chiara strategia di marketing che punti solo a una clientela selezionata (e, naturalmente, facoltosa); gli altri sfigati monoreddito si buttassero al fiume (visto che le poche battige libere sono affollate come il parterre di un concerto dei Coldplay).

Allora, al quesito: “Può fare qualcosa il governo per calmierare le tariffe delle strutture balneari?”, io risponderei: “boh, vedo la questione piuttosto complessa”. Però qualcosa mi viene in mente.

Tanto per cominciare è sia giunta l’ora, dopo decenni di messe in mora, di dare attuazione alla direttiva comunitaria Bolkestein che ha sancito l’obbligo di procedere con gare d’appalto per il rinnovo dell’affidamento dei stabilimenti, da troppi anni lasciati ai loro storici gestori in regime di proroga e deroga, spesso per due spicci. Allora, non conosco bene la normativa di settore, ma ritengo che le procedure dovrebbero prevedere gare con criteri di aggiudicazione che premino l’offerta di servizi quanto più vantaggiosi per l’utenza.

E poi sto pensando al contrasto a regole odiose e vessatorie che spesso gli stabilimenti fissano; per esempio il divieto per i clienti di introdurre propri alimenti e bevande nella struttura, costringendo quindi gli stessi a consumare al ristorante interno (con quali costi, lo sappiamo: 7-8 euro per un panino, 15-20 per un primo, aragosta non compresa).

A questo aggiungasi, nel lungo termine, una politica di restituzione di chilometri di arenile alla libera balneazione (a parità di introiti per lo Stato a cui, con le nuove gare d’appalto, le concessioni frutteranno qualche soldino in più).

Altrimenti rassegniamoci all’idea di accendere mutui e prestiti non per un bilocale in centro, bensì per una cabina sulle coste del Salento. O di vedere accentuarsi lo stridente contrasto tra i due mondi magistralmente raccontati dal compianto cantautore partenopeo Federico Salvatore, rappresentati dal figlio di papà del Vomero che imprecava “Dobbiamo andare a Capri, mo’ perdo l’aliscafo”, e dal tizio dei quartieri popolari che gli rispondeva per le rime: “Nuje a stiento ce facimme duje bagni a Mondragone!”.

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