Questo settantottesimo anniversario delle bombe atomiche statunitensi su Hiroshima e Nagasaki si svolge a poco più di un mese dal quarantacinquesimo anniversario dalla morte di quella che fu definita dal filosofo Günther Anders “l’ultima vittima di Hiroshima”, ossia il maggiore Claude Eaterly, comandante dell’aereo che al mattino del 6 agosto 1945, dopo aver sorvolato Hiroshima, diede il via all’operazione di sganciamento della bomba atomica. E’ una storia sostanzialmente oggi rimossa, che va raccontata ancora perché riguarda anche il nostro presente e il nostro rapporto con la guerra.

Ricordiamo brevemente i fatti. Sempre di più gli storici che hanno potuto esaminare i documenti desecretati riconoscono che il governo giapponese era pronto ad arrendersi circa un mese prima che piovesse le prima bomba atomica, e sicuramente prima che arrivasse anche la seconda, ma il presidente Usa Harry Truman – che era da poco succeduto a Roosevelt – non intendeva dissipare i risultati della costosissima tecnologia messa a punto segretamente con il progetto Manhattan, guidato dal fisico Julius S. Oppenheimer – sul quale è in uscita in Italia l’atteso film di Critopher Nolan – e diede ugualmente il via allo sganciamento delle due bombe nucleari. “La vera posta in gioco – scrisse Zygmunt Baumann su quella decisione – può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima: ‘Abbiamo fatto la scommessa scientifica più audace della Storia, una scommessa da due miliardi di dollari – e abbiamo vinto!’ (vedi Le sorgenti del male, 2021)”. Tre giorni dopo la stessa funesta scommessa venne riversata anche su Nagasaki: 220.000 vittime dirette delle due esplosioni, quasi esclusivamente civili inermi, e circa altre 150.000 vittime successive per le conseguenze delle radiazioni nucleari.

Il più grande e impunito crimine di guerra della storia dell’umanità.

Alla fine della guerra tutti i piloti degli equipaggi nucleari vennero celebrati in patria come… “portatori di pace”, ma Claude Eathery [in foto il terzo in alto da sinistra, ndr] si sottrasse alle oscene cerimonie e cadde in una depressione dovuta al sovrastante senso di colpa per l’immensa distruttività dell’operazione militare alla quale aveva contribuito personalmente, seppur come ingranaggio di un meccanismo che lo sovrastava. La sua vicenda umana successiva alla guerra vide Eatherly compiere tentativi di suicidio e azioni di criminalità comune per essere riconosciuto socialmente colpevole, anziché eroe, finendo invece per essere considerato malato di mente e rinchiuso nell’ospedale psichiatrico militare. Sempre più recluso e isolato, man mano che prendeva consapevolezza della necessità di gridare a tutti la propria colpa – e la necessità di espiarla – e con essa quella della macchina politico-militare che l’aveva resa possibile, accettabile e celebrata.

Questo processo di crescente chiarificazione etica individuale, che smascherava la violenza dei “buoni”, fu favorito e supportato anche dal carteggio con il filosofo tedesco Günther Anders che, venuto a conoscenza del “caso Eatherly”, avviò uno straordinario scambio epistolare con il pilota rinchiuso in manicomio che disvelò la dinamica della rimozione morale della responsabilità. “Il metodo usuale per venire a capo di cose tropo grandi – scrisse Anders nella prima lettera ad Eaterly del 3 giugno 1959 – è una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l’accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa”. Non solo come meccanismo di difesa individuale ma, nel caso della guerra in generale e della guerra atomica in particolare, come meccanismo di difesa della comunità rispetto al senso di colpevolezza collettivo. Se malato di mente è colui che ne prova vergogna e dolore la politica e la società che lo hanno voluto e consentito ne risultano sane. Ecco perché i medici, scrive ancora Anders a Eatherly, “si limitano a criticare, invece dell’azione stessa, la Sua reazione ad essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un castigo una ‘malattia’ ed ecco perché devono considerare e trattare la Sua azione un ‘self-imagined wrong’, un delitto inventato da lei” (vedi L’ultima vittima di Hiroshima, 2016).

Eatherly finirà i suoi giorni nel manicomio militare per essersi voluto assumere le proprie responsabilità in un contesto di generalizzata deresponsabilizzazione morale dei vincitori, “buoni” per definizione e per sempre. Non a caso, il carteggio tra il filosofo Anders e il pilota di Hiroshima era una delle letture che si svolgevano a Barbiana, dove don Milani insegnava che nell’epoca della distruzione atomica “l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. Non a caso, mentre si ricorda la “banalità del male” di Adolf Heichmann, ossia il suo disimpegno morale, descritta da Hannah Arendt, è stata rimossa l’opprimente responsabilità del male di Eatherly, che ci mette di fronte alle nostre responsabilità. Soprattutto oggi che le potenze nucleari – invece di sottoscrivere il Trattato Onu per la proibizione delle armi nucleari (a 90 secondi dalla mezzanotte nucleare) e cooperare alla pace in un mondo in crisi sistemica globale – conducono una nuova incredibile guerra, fino all’impossibile “vittoria”, nel cuore dell’Europa.

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