Che cosa scrivere sul film Barbie, uscito nelle sale cinematografiche il 20 luglio, diretto da Greta Gerwig, con Margot Robbie e Ryan Gosling? Fino a qualche giorno fa, lo avevo scartato, il trailer non mi aveva attirato, sarà che non amo il rosa, o forse sono refrattaria al cinema in estate se non è all’aperto.

Ma domenica scorsa, non so nemmeno perché, ho chiesto a mia figlia di andare a vederlo insieme, e lei, non so nemmeno perché, mi ha accompagnata. Tra noi c’è una grande distanza generazionale, cosa che mi ricorda rivolgendosi a me come se fossi vissuta all’epoca dei dinosauri. Per farle capire che non sono stata partorita adulta, un giorno le ho letto una pagina del mio diario da adolescente, si è commossa. Ma non è servito a molto.

Siamo separate da quattro decenni ma abbiamo condiviso la stessa esperienza infantile: abbiamo giocato e fantasticato con la Barbie. Creata nel 1959, arricchita di sorelle, amiche, fidanzato eccetera. Barbie è stata la bambola di almeno quattro generazioni di bambine. Anche io ebbi in regalo una Barbie: era castana, gambe non snodabili come la Barbie di mia sorella che le invidiavo un po’. L’avevo insistentemente richiesta e molto desiderata fino a quando era arrivata il giorno del mio nono compleanno. Senza nemmeno averlo chiesto, arrivò Ken, come consolazione per un grave infortunio occorsomi e per il quale rischiai di perdere buona parte del piede sinistro. Le Barbie di mia figlia sono finite in una scatola in soffitta durante la scuola media. La mia Barbie e il mio Ken vennero invece archiviati dalla furia dell’acqua: erano in cantina quando nel 1979 furono sommersi sotto un’onda anomala che allagò la riviera adriatica in provincia di Ravenna. Il sale mal ridusse quei due pezzi di plastica che avevano animato le mie storie e i miei giochi, così finirono nel pattume.

Il film sull’oggetto di desiderio di milioni di bambine è stato giudicato noioso, pedantemente femminista o un furbo prodotto finanziato dalla Mattel che, secondo la critica femminista, ha contribuito a condizionare negativamente le donne, imponendo un canone estetico innarrivabile. E, altra critica, Barbie con gli innumerevoli e inutili accessori: la casa, il camper, i vestiti, i gioielli, le scarpe, l’auto, ha rappresentato il consumismo più sfrenato, al quale per decenni sono state educate generazioni di bambine. Tutto vero. Eppure il film mi ha, anzi, ci ha divertite e commosse (ebbene sì). Ci siamo ritrovate nelle battute di Gloria (America Ferrera) e Sasha (Ariana Greenblatt), madre e figlia nel film, che sembravano prese dalla nostra quotidianità, e ci siamo date di gomito complici, sentendo i borbottii e le lamentele di bambini e papà, seduti accanto a noi, troppo poco abiutati a film che frustrano il protagonismo maschile. Anche se il film dice molto sugli uomini e sulle loro relazioni, ma non come sarebbe piaciuto ai brontoloni in sala.

Le donne e le bambine che in questi giorni sono andate al cinema a vedere Barbie sono vissute in decenni diversi, hanno sognato mondi ideali e rassicuranti per poi raccattare, durante l’adolescenza, i cocci delle illusioni ingenue e infantili. L’amore-odio per la bambola perfetta ha fatto sì che tante bambine impugnassero le forbici dando un taglio definitivo a quei capelli posticci, oppure mettessero mano a pennarelli indelebili per eseguire un trucco clownesco creando la personale “Barbie stramba”. Una ritualizzazione della fine dell’infanzia che è stata condivisa da tante bambine deturpando l’oggetto dei loro desiderio mentre altre lo archiviavano in soffitta o in cantina. Il passaggio dall’infanzia all’età adulta ha messo alla prova tutte noi, anche nella fatica di cercare di superare, vincendo o uscendone sconfitte, il rapporto con una realtà più avara di possibilità rispetto a quelle che poteva avere un nostro coetaneo.

Non so come e quando io abbia perduto il sogno di diventare la comandante di una nave, a lungo accarezzato (ancora oggi i viaggi in nave mi emozionano profondamente) mentre Cristiano, il compagno di giochi che sognava di diventare pilota di elicottero, divenuto adulto, realizzava il suo. I sogni delle bambine possono svanire facilmente e i progetti delle donne evaporare: non ci vuole nulla e sfuggono via dalle nostre mani. Accade quasi senza che ce ne accorgiamo, anche l’inconscio si fa ubbidiente ma poi presenta il conto con “pensieri di morte”… Così accade a Gloria che si descrive come una “donna noiosa, con un lavoro noioso e una figlia che la detesta”.

Ho apprezzato molto come nel film sia stato reso lo scarto tra il mondo glassato dove le Barbie sono protagoniste, ma nello stesso tempo costrette ad essere sempre leggiadre e belle, e la realtà di un mondo connotato dal potere maschile, ossessionato dall’invadente mito della virilità e dalla costante reiterazione delle simbologie falliche. Tra fantasia e realtà non c’è alla fine una via certa di fuga. Ognuna deve trovare la sua.

Se le fantasie delle bambine sono condizionate da stereotipi che alimentano il mercato, il mondo è reso poco accogliente da un sessismo palese o malcelato dal politicamente corretto. Come quello risibile di Will Ferrell – Chief executive officer della Mattel – che nel film dirige il consiglio di amministrazione dell’azienda, composto da soli uomini. Un androceo che, nel corso degli anni, ha accolto solo due donne ma, spiega Will Ferrell mentre invita Barbie a rientrare nel suo mondo: “noi siamo amici delle donne, io ho amiche donne, sono figlio di una madre e madre di un figlio e ho anche amici ebrei”. Intanto l’ideatrice della Barbie, Ruth Handler (interpretata da Rhea Perlmanche), che fece la fortuna dell’azienda, resta solo un fantasma confinato, come le sue bambole, in una sorta di casa giocattolo nello scantinato dell’azienda diretta da soli uomini. In quel mondo Ken trova la sua dimensione, “qui comandano gli uomini”, l’unica che possa renderlo visibile. Così crede.

Trovo interessante la riflessione di Monica Lanfranco:

“E’ un film che serve a prendere atto di quanto gli stereotipi siano potenti ma che l’intelligenza sensibile ha la capacità di distruggerli, se fra donne ci si riconosce anche nelle differenze e mantenendo le proprie peculiarità. È un film distopico che dà anche un grande sprone al tema dell’amicizia tra le donne, perché le differenze possono trovare consonanza di fronte a un obiettivo grande come la libertà. Ed è anche un film sui corpi sessuati e sui desideri: questi partono dai corpi sessuati, poi gli orientamenti sessuali sono molteplici ma il corpo conta. Eccome.

Nella scena finale c’è un nuovo inizio a partire dal corpo, ed è un messaggio che viene dagli anni ’70 e che oggi, più che mai, col porno – che è forse l’unica fonte di insegnamento e di indottrinamento feroce, ferino e ferale sulla sessualità per adolescenti o forse addirittura bambini e bambine – ci dice che no, il corpo conta e che dobbiamo ripartire da lì.

Mi ha infine veramente commossa la frase che Ruth Handler dice a Barbie, ovvero che, ad un certo punto, le madri si fermano per consentire alle figlie di andare avanti per poi girarsi e vedere quanta strada hanno fatto. Questa è filosofia femminista. Il che non vuol dire che la generazione precedente – o in particolare la madre, incarnata o simbolica – rimane indietro e quindi quelle che vanno avanti, hanno capito di più, ma che la trasmissione passa attraverso anche il lasciare spazio. E quello che sta avvenendo purtroppo adesso con Non Una di Meno, il transfemminismo e le frange meno ascoltanti, distruttive e ideologiche, è non riconoscere questa grande saggezza delle più vecchie. Ma è qualcosa che dovrebbe appartenere a tutte, madri e non”.

Noioso o divertente che sia, apprezzabile o spregevole prodotto commerciale, il film Barbie riesce a parlare alle donne e alle ex bambine. Forse è per questo che con tutti i suoi limiti e la glassa rosa, obtorto collo, dobbiamo ammettere che ci è piaciuto.

@nadiesdaa

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Il film di Barbie sfonda ovunque tranne che in Corea del Sud: “Troppo femminista”. Ma non è l’unica spiegazione al flop

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