Mi addolora la scomparsa di Marc Augé, grande antropologo francese (era di Poitiers e se ne vantava sempre). L’ho conosciuto decine di anni fa, quando divenne noto per avere individuato il concetto allora controverso ma oggi accettato da tutti, studiosi e profani, di “nonluoghi”, i nonlieux che punteggiano la nostra quotidianità: gli autogrill, gli ipermercati, i vagoni delle metropolitane, le stanze di un motel, le sale d’aspetto, gli stessi aeroporti, insomma quei luoghi in cui noi non viviamo ma ci transitiamo.

Sono luoghi di non vita relazionale, dove il tempo è anonimo come i posti che “servono” e per questo non sono significativi, se non per il servizio temporaneo che offrono. Marc Augé sosteneva quindi che i nonluoghi non assegnano alcuna identità alle individualità che vi passano, e sono frutto di una società dei lavori e dei consumi di massa. Quello che lui definiva “surmodernità”.

Era il 1992 quando il suo saggio venne stampato in Italia e confesso di averlo saccheggiato ogni volta che mi toccava descrivere e scrivere di stazioni, autostrade, metropolitane, supermercati, e di inoltrarmi nei meandri di Ikea e altri posti che la domenica si trasformavano in villaggi di moltitudini tanto in movimento quanto prede delle nuove solitudini in luoghi che sono creati e progettati per accogliere migliaia di persone e indurle a spendere e consumare, in questo senso a diventare cavie perfette della globalizzazione.

Marc Augé era molto simpatico e arguto, parlava italiano e aggiornò il suo mestiere di etnologo e antropologo con una serie di saggi originali e provocatori. Come Un etnologo nel metrò, in cui analizza la società parigina attraverso il filtro della metropolitana, ossia uno dei nonluoghi più classici e paradossali, dove ognuno è rinchiuso in se stesso. Col progredire delle tecnologie popolari e dei mezzi di comunicazione, Augé fu tra i primi a capire che i nonluoghi capaci di connettere le persone ovunque e in qualsiasi momento producevano spaesamento e solitudini che non erano cancellate dall’attività dei social, ma che si evolvevano nell’irrealtà, nelle “finzioni di fine secolo” (altro titolo di una sua suggestiva opera, come Rovine e macerie. Il senso del tempo).

Aveva 87 anni e ancora un sacco di cose da dirci. Per lui, la vecchiaia non esisteva (Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste). In questo delizioso pamphlet Marc scrisse: “Conosco la mia età, posso dichiararla, ma non ci credo”. La grande differenza cioè fra il tempo e la nostra anagrafe. Essere vecchi è un’etichetta che ci viene applicata dagli altri, veniamo infilati nei luoghi comuni, nei pregiudizi, ma ciò è qualcosa di superficiale, ed è lontano da quello che invece sentiamo e percepiamo in noi. Dunque, con caustico cartesianismo, Augé conclude che la vecchiaia non esiste, anche se i nostri corpi conoscono l’usura naturale del tempo, la nostra irriducibile “soggettività” resta “fuori dal tempo”, perciò alla fin fine “tutti muoiono giovani”.

Marc, un giovanotto di 87 anni era, in fondo, un grande ottimista.

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