Nelle ultime ore che hanno segnato la campagna elettorale la stampa spagnola ha fatto ricorso a termini calcistici per spiegare il momento: l’iniziale “remontada”, ovvero l’affannosa rincorsa dei socialisti del premier Pedro Sánchez sui favoritissimi Populares di Alberto Núñez Feijóo, ad un certo punto è divenuta “maracanazo”, possibilità di una vittoria inattesa. Come l’incredibile successo sportivo che nella finale mondiale del 1950 vide trionfare l’Uruguay di Schiaffino e Ghiggia sul favorito Brasile che, giocando in casa, aveva già imbandito la tavola a festa.

La lunga notte elettorale non ha consegnato un risultato netto, è un quasi pareggio che fa male alla governabilità ma lascia sul campo scorie e feriti.

L’ultradestra di Vox ne esce malissimo, la sua marcia inarrestabile accusa il colpo perdendo inaspettatamente parte rilevante dei suoi 3,6 milioni di voti e con 19 seggi in meno (33 gli attuali contro i 52 della precedente legislatura). Uno smacco per il leader Santiago Abascal, gran alleato di Giorgia Meloni con la quale condivide la crociata contro quell’“ambientalismo ideologico” che, a loro dire, minerebbe le basi del sistema produttivo occidentale.

L’inatteso crollo di Vox rende monca la vittoria dei conservatori guidati da Núñez Feijóo, e già volano gli stracci nella casa del centrodestra spagnolo. Il volto tirato di Abascal dopo la lettura dei risultati ha detto più di mille commenti, lungi dal fare autocritica il pessimo dato nelle urne viene attribuito ai martellanti appelli al ‘voto utile’ sulla stampa di area moderata e alla crescente freddezza mostrata da Núñez Feijóo verso un difficile alleato, scomodo in casa per le posizioni oltranziste sull’aborto e sulle libertà civili, impresentabile in Europa.

Quella impresentabilità su cui Pedro Sanchez ha costruito l’intera strategia elettorale, con il clamoroso recupero del suo partito che solo due mesi fa era uscito con le ossa rotte dalle consultazioni locali e regionali.

La storia ha i suoi cicli, non è la prima volta che la politica spagnola vede ribaltate le previsioni demoscopiche, accadde già nel 1993 quando a Felipe González, capo dell’esecutivo socialista uscente, bastò un memorabile secondo tête à tête televisivo col favorito José María Aznar per recuperare consensi e staccare i populares di circa 300 mila voti.

Non è nuova nemmeno l’influenza decisiva esercitata dai partitini regionali e indipendentisti nella nascita di un governo. Le formazioni basche e catalane faranno una volta di più da ago della bilancia, barattando astensioni all’atto dell’investitura o appoggi espliciti con misure di ampliamento del potere autonomico. È la politica praticata per decenni da Jordi Pujol, gran architetto dell’autonomia catalana, certo i tempi non sono più gli stessi, la spinta indipendentista si è arenata dopo l’onda referendaria dichiarata illegittima dal Tribunale Costituzionale ed ora la sensazione è quella di dover difendere le posizioni conquistate nel corso degli anni. Non a caso “Catalogna o Vox” è divenuto lo slogan di questa campagna.

Il tonfo di Santiago Abascal fa respirare la Catalogna, ma anche l’Europa. Sul leader dell’estrema destra aveva puntato forte la Giorgia “cristiana e populista”, ma anche il premier polacco Mateusz Morawiecki e l’eterno Victor Orban. Un successo populista nel quarto paese più popolato della UE avrebbe contribuito a frapporre bastoni più solidi negli ingranaggi della integrazione europea.

“Y ahora qué?” titolava El País all’indomani dello spoglio, i giochi sono aperti ma è molto probabile che Pedro Sánchez saprà convogliare su di sé l’attenzione di tutti i partiti minori e a quel punto la “remontada” diventerà “maracanazo”, ai tempi supplementari. “Era tutto previsto, tranne il trionfo dell’Uruguay”, commentò Jules Rimet nel ’50, dopo i fatti dello stadio di Rio.