di Lorenzo Serra

È come se nella ricezione, nel giudizio, dell’opera di Zerocalcare si siano condensate alcune delle contraddizioni fondamentali che attraversano il nostro tempo storico. Egli, cioè, suo malgrado, oscilla pericolosamente tra coloro che ne fanno apologia, scorgendo in lui uno dei massimi portatori di istanze universalistiche, liberal, e quelli che, invece, per quei medesimi motivi, ma da un’angolazione opposta, vedono nella sua opera la rappresentazione di quella “sinistra ideologica”, “separata dai reali bisogni delle persone” (e così via..). Ma gli scritti di Zerocalcare conducono, realmente, a questi due estremi o, piuttosto, la ricezione che si è andata formando in questi anni dice qualcosa più sui limiti del contesto storico (della nostra epoca) rispetto a quanto, invece, ci permette di cogliere, e comprendere, della sua opera? Quale è, infatti, il rapporto di Zerocalcare con il problema della verità? Il fumettista romano è, veramente, un artista ‘ideologico’ – in cui, cioè, le sue riflessioni non provengono da riflessioni interiori, autentiche, ma da un’adeguazione esteriore allo spirito del tempo?

Il punto è che dalla sua opera difficilmente sembra trasparire questa visione ideologica della realtà: egli (con i limiti su cui torneremo) ha tentato, infatti, di spezzare proprio quei blocchi unitari e quei mondi polarizzati di cui sopra. In una delle sue ultime pubblicazioni – “Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia” – scrive: ‘io credo che nessuna cosa, se la guardi abbastanza da vicino, sia monolitica’. Riflettendo sulla totalità della sua opera possiamo sostenere come egli, in qualche modo, abbia sempre cercato di rispettare tale assunto.

Prendiamo ad esempio il concetto di rivoluzione: nei suoi testi traspare una piena consapevolezza della moderna crisi storica. È sincero – scrive che utilizzare questa parola nel nostro contesto occidentale può assumere solamente le forme di una ‘parodia’: è lontano (inattuale), cioè, rispetto ad alcuni modelli, e convenzioni, oggi dominanti che hanno ormai interiorizzato, e fatto proprio, un concetto caricaturale di rivoluzione, abiurando, in questo modo, all’intero carico di tradizione che quel vocabolo portava con sé. In lui, insomma, è presente ancora il ricordo (una memoria storica), grazie al quale distinguere le epoche e mediante il quale, conseguentemente, poter comprendere, con le categorie ad essa proprie, la nostra realtà.

Una volta sciolti questi nodi preliminari concernenti la ricezione dell’opera di Zerocalcare – riconosciuta, cioè, dignità ed autonomia a quest’ultima – vi è la possibilità di esaminare le strutture fondamentali della sua poetica. È nell’antropologia e nella descrizione dell’esistente che è possibile scorgere la chiave fondamentale della sua opera: egli, cioè, è riuscito a rappresentare alcuni aspetti egemonici, preminenti, delle forme di vita della nostra epoca.

Gli elementi-cardine dei suoi testi sono, dunque, l’inquietudine e l’angoscia di una certa fase storica: è in questi passaggi, infatti, che è stato in grado di cogliere alcuni aspetti della nostra epoca – nel rappresentare, in definitiva, quel senso compiuto di declino, di precarietà e permanente instabilità dell’Occidente post-’89, alla conclusione della propria storia, al termine delle grandi narrazioni. Quel ‘polpo alla gola’ che accompagna gli individui sin dall’adolescenza, la crisi strutturale di ‘trentenni’ precari, che percepiscono le loro vite come immobili (descritti nei termini dei ‘fili d’erba’, di ‘brandelli ciancicati’), divengono simboli, in questo modo, dell’Occidente di fine millennio. In uno dei suoi primi fumetti, La profezia dell’armadillo, scrive: ‘funzioniamo meglio con i morti ammazzati dalla polizia che dall’anoressia’; ed in questo, in qualche modo, si racchiude una parte centrale della sua poetica – nel descrivere, cioè, quel difficilissimo passaggio dallo storico all’intimo, dal politico strictu sensu all’esistenziale, il fatto, cioè, che per rappresentare adeguatamente il nostro tempo storico di crisi si dovesse necessariamente passare attraverso quella che potremmo definire come la mediazione del sensibile.

È in questi aspetti che, quindi, sono racchiusi i suoi meriti – nella capacità di descrivere la moderna società borghese in decadenza – ma, simultaneamente, è in questi stessi elementi che affiorano anche i suoi limiti: nel non riuscir, cioè, a guardare oltre, al di là di queste strutture. In questo passaggio mi sembra vi sia il vero punto problematico dell’opera di Zerocalcare: nell’assenza, al suo interno, di un’alternativa antropologica – nel descrivere un solo mondo chiuso, rimanendo assorbito, in definitiva, da ciò che egli voleva rappresentare. Il ‘galleggiare’, o, ancora, la simbologia dei ‘tronchi non stabili’, elementi ricorrenti all’interno della sua produzione, divengono, cioè, l’unica forma di vita possibile: non esiste alcun fuori, alcun altro o oltre.

Se egli, dunque si è fatto portatore di alcuni caratteri egemonici del nostro tempo, non è stato, poi, in grado di coglierne anche le devianze, gli scarti, le eresie: quei residui antropologici, cioè, che serbano in sé la carica di nuove, e differenti, costruzioni del mondo. Potremmo dire che in lui l’attualità diviene ontologia: non vi sono spazi ulteriori al di fuori di essa. Il nucleo centrale della sua poetica sembra, infatti, esser sempre inscalfibile: non vi è, cioè, il Marx che succede ad Hegel, il Dostoevskij che succede a Tolstoj – in definitiva, non vi è la parte di ‘mondo nuovo’ che dovrebbe seguire, almeno da un punto di vista progettuale, alla dissoluzione del vecchio. Vi è solo il dentro, e il rischio di rimanere intrappolati all’infinito all’interno di esso.

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