La prova dei fatti sta nelle immagini registrate, quelle della videosorveglianza interna al carcere di via Settembrini a Reggio Emilia. Immagini che hanno consentito agli investigatori della Polizia penitenziaria e alla Procura reggiana, guidata da Gaetano Paci, di ricostruire nei dettagli l’accaduto e identificare con precisione gli agenti responsabili delle azioni brutali, violente e umilianti di cui è rimasto vittima un detenuto tunisino, ora indagati per tortura e sospesi dal servizio. Tutto inizia poco dopo mezzogiorno del 3 aprile scorso, quando la vittima, trasferita a Reggio da Bologna, termina un colloquio con la direttrice del carcere. Mentre torna in cella l’uomo viene circondato dagli agenti. Uno di loro gli infila una federa bianca sulla testa e gliela stringe attorno al collo. Gli altri gli bloccano gambe e braccia. Dopo pochi metri uno sgambetto lo fa cadere a terra e gli agenti cominciano a infierire: schiaffi e pugni al capo, calci in diverse parti del corpo, scarponi a calpestare i polpacci e le caviglie. Un altro detenuto entra nel corridoio e assiste alla scena, ma si allontana senza che gli agenti se ne interessino. La vittima viene fatta rialzare e accompagnata verso il reparto isolamento, ma prima gli vengono strappati pantaloni e mutande, lasciandolo nudo dalla cintola in giù, mentre il nodo della federa è sempre stretto attorno al collo e controllato da un poliziotto. Poi viene gettato in una camera di pernottamento, dove riceve altri calci e pugni prima che gli venga tolto il cappuccio dalla testa.

Rimasto solo in cella il detenuto urla, sbatte la finestra e riesce a rompere il lavandino, procurandosi un coccio di ceramica con cui si procura diversi tagli sull’avambraccio sinistro. Gli altri pezzi li lancia contro le plafoniere del soffitto. Verso le 13:30, oltre un’ora dopo le prime botte, alcuni agenti protetti da scudi entrano nella cella per accompagnare un medico, che fa portare il detenuto in infermeria. L’uomo ha perso molto sangue e lamenta forti dolori in particolare alla testa per la violenza dei colpi ricevuti. Nei giorni successivi presenta una denuncia/querela al comando di Polizia penitenziaria e scattano le indagini, che coinvolgono 14 agenti. Tre mesi dopo, il 7 luglio il gip Luca Ramponi firma l’ordinanza che impone a dieci degli indagati la sospensione dal servizio e l’obbligo quotidiano di firma. Il giudice concorda con i pm: l’ipotesi di tortura (reato introdotto nell’ordinamento nel 2017) è la più adatta a descrivere le azioni “degradanti” e “umilianti” compiute dagli agenti, viste le testimonianze raccolte e soprattutto la documentazione visiva fornita dalle registrazioni. Alcuni agenti dovranno rispondere anche di falso ideologico in atto pubblico, per avere redatto e firmato relazioni di servizio che tentavano di attribuire alla vittima la responsabilità dell’accaduto, inventando lamette e oggetti di ferro in suo possesso che secondo l’accusa non esistevano e certamente non compaiono nelle riprese.

Resta da chiarire se l’azione degli agenti sia in qualche modo legata al colloquio che il detenuto aveva da poco avuto con la direttrice del carcere. Nel suo esposto-denuncia è la stessa vittima a raccontare che in quella conversazione si era lamentato per il vitto e per i vestiti, insultando la direttrice. Ma quanto è avvenuto dopo, nei corridoi, colloca la vicenda su un piano ben diverso. La tortura, vietata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, è aggravata se a compierla sono pubblici ufficiali. Ora, con ogni probabilità, gli agenti del carcere di Reggio dovranno risponderne in un processo.

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