“Sono fiera di essere arrivata alla guida di questa nazione quando era lanciata a folle velocità verso la cancellazione dei confini nazionali, il divieto di adottare qualsiasi misura di contenimento dell’immigrazione illegale arrivando perfino a legittimare chi sperona le navi dello Stato italiano…”. Lo ha detto in Aula alla Camera il presidente del Consiglio Giorgia Meloni nelle sue comunicazioni in vista del Consiglio europeo del 29 e 30 giugno. Un modo di ribadire la linea politica del governo sulla questione migranti, anche in Europa. Parole che mettono il dito nel cortocircuito tra poteri dello Stato sulla questione. E in particolare tra il potere esecutivo dei recenti governi e le leggi interne, europee e internazionali che regolano l’immigrazione e le operazioni di soccorso in mare. Non a caso le parole di Meloni arrivano a poca distanza dalla decisione del ministero degli Esteri di non rispettare l’ordinanza del Tribunale di Roma che ha appena dichiarato illegale il respingimento in Libia di alcuni migranti soccorsi da una nave mercantile italiana nel 2018, stabilendo il diritto di uno dei respinti, un cittadino sudanese tuttora a Tripoli, a entrare in Italia e presentare domanda di protezione internazionale. La comunicazione è del 16 giugno e l’ordinanza è esecutiva, ma finora le disposizioni del giudice non sono state eseguite.

Da una parte c’è la politica che legittimamente ridefinisce gli interessi del Paese, dall’altra le leggi nazionali e sovranazionali applicate nelle sentenze. Ma quando si parla di immigrazione capita che la distanza sia enorme. Partiamo dalle parole di Meloni, che ha preso nuovamente le distanze dalla sentenza in cui la Cassazione ha scagionato la capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete. Il 12 giugno 2019, intimata dall’allora ministro degli Interni, Matteo Salvini, a sbarcare in Libia le 52 persone che aveva soccorso, Rackete dirige a Nord, verso un porto sicuro in base alle convenzioni internazionali. Diretta a Lampedusa si dovrà fermare per il divieto d’ingresso in acque territoriali imposto dal Decreto sicurezza bis, appena varato dal governo Lega-M5s. “Può restare in mare fino a Natale e Capodanno”, dirà Salvini in quei giorni. Il 26 giugno Rackete entra nelle acque territoriali e l’indomani è a 500 metri da Lampedusa, denunciando una situazione a bordo “non più sostenibile”. Il 29 giugno Rackete decide di entrare in porto. Una motovedetta della Guardia di Finanza tenta di bloccare l’attracco mettendosi tra il molo e la Sea Watch 3. Ma i finanzieri saranno costretti a levarsi di mezzo perché Rackete non ferma la manovra. “Fossimo rimasti lì, la nave avrebbe distrutto la motovedetta”, ha ricostruito la Gdf.

Rackete sbarca da indagata, accusata di “resistenza a pubblico ufficiale” e “resistenza o violenza contro nave da guerra” per la manovra a rischio. Confermando la decisione del gip del Tribunale di Agrigento di non convalidare l’arresto della capitana, il 20 febbraio 2020 la Cassazione dichiarerà che, alla luce dell’obbligo di salvataggio in mare e conduzione dei naufraghi in un porto sicuro, i fatti sono stati commessi nell’adempimento del dovere di soccorso in mare che ne esclude la punibilità (art. 51 codice penale). Impossibile ormai non rispettare quella sentenza, ma non per questo Giorgia Meloni è tenuta a condividerla, convinta che la Suprema Corte abbia invece legittimato “chi sperona le navi dello Stato italiano”. E’ il cortocircuito intorno al quale si avvita la questione immigrazione in un Paese esposto come il nostro alle principali rotte dei migranti che tentano l’ingresso nell’Unione europea. Ma è anche un’importante chiave di lettura per capire quanto si deciderà in Europa dove, ha detto la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, bisogna trovare soluzioni “anche attraverso un pensiero fuori dagli schemi”. Schemi spesso imposti dalla legge e divenuti in questi anni troppo stretti per tanti governi, compresi quelli italiani. Norme e diritti confermati nelle aule dei tribunali e fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che però complicano la vita a chi si è dato l’obiettivo di fermare i migranti e deve fare i conti con sbarchi più che raddoppiati rispetto all’anno scorso. Rispettare la legge o mantenere le promesse?

Siccome alcuni principi non si possono stracciare, i governi europei stanno più modestamente cercando di aggirarli. L’idea è quella di estendere il concetto di Pese terzo sicuro così da poter delegare ad altri la custodia di quanti cercano di arrivare in Europa, per tagliare la testa al diritto di presentare domanda di protezione, che è diritto fondamentale dell’uomo sancito anche dalla nostra Costituzione. Da vedere se l’impresa riuscirà, superando o formalizzando le tante collaborazioni ambigue, gli accordi non scritti e le prassi di frontiera in violazione delle norme messe in atto dagli Stati membri, Italia compresa. E intanto? Dipende dal rispetto che si ha delle regole e delle sentenze. La giudice Silvia Albano del Tribunale di Roma ha appena accolto il ricorso di un sudanese del Darfur. Sfollato nel 2003 per il conflitto nella regione, non riuscendo a provvedere alla famiglia nel 2016 arriva in Libia per tentare la traversata del Mediterraneo. In Libia, riporta l’ordinanza, sarebbe stato sottoposto a lavori forzati, detenzione arbitraria, maltrattamenti e abusi. Il primo tentativo via mare fallisce e si ritrova nuovamente detenuto. E così la seconda volta, quando finisce rinchiuso nel centro di Tariq Al Matar con altre sofferenze e nuovi lavori forzati. Ma col secondo soccorso in mare e il successivo rientro in Libia entrano in gioco l’Italia e un mercantile che batte il Tricolore.

Il 2 luglio 2018 la Asso 29 della società Augusta Offshore, questo il nome del mercantile, raggiunge, assiste e infine traina una motovedetta libica in avaria che aveva appena soccorso 160 migranti partiti dalle coste libiche a bordo di un gommone. Dalla motovedetta i migranti salgono sulla Asso 29. Una volta a bordo di una nave italiana, dice l’ordinanza, i naufraghi non avrebbero più potuto né dovuto essere riportati in Libia, in base all’obbligo di non respingimento sancito dalle Convenzioni internazionali e dall’ordinamento Ue. Un respingimento illegittimo verso un Paese non sicuro come la Libia che il provvedimento imputa anche al coordinamento dalla Marina Militare italiana. Visto il danno subito e la condizione di pericolo del ricorrente, tuttora a rischio di trattamenti inumani o degradanti nonostante il tesserino rilasciatogli dall’UNHCR perché la sua nazionalità è tra quelle considerate bisognose di protezione, la giudice ha dichiarato il suo diritto “di presentare domanda di protezione internazionale in Italia” e ha ordinato “alle amministrazioni competenti di emanare tutti gli atti ritenuti necessari a consentire il suo immediato ingresso nel territorio dello Stato italiano”. Peccato che l’Ambasciata italiana a Tripoli, che potrebbe rilasciare il visto d’ingresso, non risponda. Lo racconta Cristina Cecchini, avvocato che insieme a Loredana Leo ha patrocinato la causa. In buona sostanza, il ministero degli Esteri italiano, da cui l’Ambasciata dipende, ad oggi non ha ritenuto di dare esecuzione alle disposizioni della giudice e con tutta probabilità gli avvocati dovranno avviare una procedura di esecuzione. La Von der Leyen dice che “dobbiamo lavorare su percorsi di ingresso legali alternativi”. In questo caso basterebbe un visto, ma tra il dire e il fare, come vediamo, c’è di mezzo un mare grande quanto il Mediterraneo.

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