di Leonardo Botta

Nel mare magnum di frasi fatte seminate in giro, nei giorni della scomparsa di Silvio Berlusconi (gli sia lieve la terra), alcune davvero non si possono sentire. Qualcuno ha parlato (ci vuole davvero una bella faccia tosta) di rivoluzione liberale del cavaliere; uno dei pochi commentatori di area conservatrice che ha mostrato, invece, una lodevole dose di obiettività è stato il giornalista Francesco Borgonovo, che ha attribuito all’ex premier l’affettuoso appellativo di “monarca”. Qualcun altro l’ha definito il “salvatore della patria” contro il pericolo “comunista” (vabbè, stendiamo un velo pietoso).

Ma l’affermazione, a mio modesto parere, più stucchevole di tutte è quella secondo cui il “capolavoro”, nonché lascito ereditario di Berlusconi, siano i fasti dell’attuale governo e di Giorgia Meloni. Niente di più falso, secondo me: l’ascesa della premier si è consumata non “grazie”, ma “nonostante” Silvio. E ciò è avvenuto sin dalla fondazione di Fratelli d’Italia, nato per iniziativa di Meloni, Crosetto e La Russa proprio perché il buon Silvio non si decideva (e mai l’avrebbe fatto) ad aprire il suo partito (era la fase in cui aveva fondato il Popolo delle Libertà dalla fusione di Forza Italia e Alleanza Nazionale) alle nuove risorse (Meloni era certamente tra queste): niente ricambio generazionale, niente discussione interna, niente congressi, insomma niente di niente.

Ça va sans dire, non è mai stato un mistero il fastidio con cui B. e Salvini assistevano alla crescente visibilità della leader romana, al punto da pensare di costituire una federazione Forza Italia-Lega per contrastare l’avanzata di FdI e contendere la leadership del centrodestra all’alleata/avversaria (progetto rivelatosi del tutto velleitario). E tutti ricordano gli appunti nei quali, nei giorni della formazione del nuovo governo, il leader di Fi scriveva peste e corna di Giorgia, ricevendo da lei una sprezzante risposta (“Io non sono ricattabile”); così come ricordano la richiesta di B. del ministero della Giustizia per la fedele Casellati, a cui la Meloni rispose picche nominando Carlo Nordio guardasigilli.

Insomma, non ho la sfera di cristallo, ma ho fondati motivi per credere che Meloni sarà una presidente del Consiglio dei ministri più efficiente del defunto alleato, i cui quattro governi, diciamolo con franchezza, non hanno certo lasciato il segno nella nostra storia repubblicana: nessuna rivoluzione liberale (furono molto più liberali i provvedimenti di Bersani, ministro dello Sviluppo economico del governo Prodi II), nessuna significativa riduzione della pressione fiscale, nessuna riforma epocale consegnata ai posteri, tant’è che all’on. Stefania Craxi, incalzata da Marco Travaglio in un confronto televisivo di qualche giorno fa, non ne veniva in mente una che fosse una (gli unici provvedimenti lodevoli che io ricordi degli esecutivi Berlusconi sono la patente a punti e il divieto di fumo nei luoghi pubblici). Anzi no: a dirla tutta, il quarto governo B. il segno lo lasciò eccome, con lo spread a 575 punti base nel novembre 2011 e l’Italia finita quasi in bancarotta!

E se, come credo (con mio rammarico, da uomo di sinistra quale ritengo di essere), Meloni sarà una premier migliore di Berlusconi (con una più che concreta prospettiva di riconferma tra quattro anni alla guida di Palazzo Chigi, complice anche la profonda crisi che attanaglia le opposizioni), sarà a mio avviso soprattutto per due motivi: perché non è, appunto, ricattabile, come invece lo era l’uomo di Arcore, compromesso da frequentazioni poco raccomandabili (leggasi Ruby, le olgettine e qualche legame malavitoso vantato da alcuni suoi più stretti collaboratori); e perché non sarà sommersa dalla marea di conflitti d’interesse che indussero B. (pace all’anima sua) a varare oltre cinquanta (cinquanta!) norme ad personam e pro domo sua.

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