La prima cosa che impariamo da bambini è il nostro nome. Da piccoli, non solo tutti richiedono la nostra attenzione chiamandoci per nome, ma apprendiamo molto presto, appena dotati del dono della parola, i nostri nomi e cognomi. Ce li insegnano sin da piccoli perché fanno parte della nostra identità. Sono la nostra identità.

Più di mezzo secolo fa, la filosofa liberale Hannah Arendt diceva che “rispondere alla domanda: chi? significa sempre raccontare una storia di vita“. Nel nostro nome e cognome c’è la nostra storia, ci sono le nostre storie.

Ora immaginate che qualcuno, una persona estranea alla famiglia, un giorno vi venga a dire che non potete più chiamarvi col cognome di uno dei vostri genitori. E perché? Perché, come ha precisato il ministro per la (dis)parità Eugenia Roccella, “in Italia si diventa genitori solo in due modi, o per rapporto biologico o per adozione”, ribadendo che “lo ha ribadito anche la Cassazione”.

La calma con cui Roccella esprime questo pensiero è proporzionale solo alla rabbia che le sue parole generano in chi ha ancora voglia di ascoltare le gigantesche falsità che dice. Non è vero, infatti, che la Cassazione ha detto che si più diventare genitori solo per biologia o adozione, anzi è vero il contrario: “Una volta che il bambino è nato”, dice l’ultima sentenza della Cassazione (Sezioni Unite) in materia di omogenitorialità così tanto sbandierata da Roccella, sorge “l’esigenza di proteggere il diritto fondamentale del minore alla continuità del rapporto affettivo con entrambi i soggetti che hanno condiviso la decisione di farlo venire al mondo, senza che vi osti la modalità procreativa” (sentenza n. 38162 del 31 dicembre 2022). Vale per due mamme così come per due papà.

Roccella dice dunque il falso.

Così come dice il falso la procuratrice di Padova facente funzioni, Valeria Sanzari, la quale ha affermato ieri che le azioni da lei proposte di rettifica dei 33 atti di nascita indicanti due donne quali madri, espungendo la menzione della donna che non ha dato alla luce, sarebbero necessarie in quanto richieste dalla legge attuale. È, questa, una narrazione divenuta familiare che somiglia molto alla storia, ormai famosa, della maestra di Liliana Segre, che nel 1938 si reca a casa Segre per annunciare che la piccola Liliana non potrà più andare a scuola, rispondendo alle domande dei genitori con un laconico: “Insomma, mica le ho fatte io le leggi razziali!”.

Insomma, mica l’ho fatta io la legge! Dice oggi la Procura di Padova a 85 anni di distanza.

Eppure anche questa narrazione è bugiarda perché gli status personali (nome incluso) non possono essere modificati a piacimento dall’autorità giudiziaria ed esiste una cosa che esisteva persino in quel coacervo di politica, tradizione e religione che era il medioevo: i diritti quesiti. Questi bambini esercitano da anni (il più vecchio ha infatti 6 anni) il loro diritto al nome, che è un diritto fondamentale della persona e deve essere rispettato, così come deve essere rispettato il loro diritto alla continuità genitoriale. Lo dicono numerose sentenze, anche della Corte europea dei diritti umani, e pure della Cassazione.

L’idea di poter esercitare il proprio brutale potere fregandosene dei diritti individuali è, in effetti, un’idea marcatamente fascista. Questo va detto e ripetuto proprio per evitare che passi come un fatto oggettivo quella che invece è un’opinione personale, e cioè il convincimento che il governo e la Procura di Padova stiano solamente applicando la legge: no, quello che entrambi offrono è soltanto una giustificazione abbozzata ex post per lavarsi la coscienza del solco che stanno tracciando nei diritti fondamentali dei bambini colpiti dalle azioni di rettifica di cui sopra. Solco di cui sono pienamente responsabili.

Se c’è un principio di civiltà giuridica al quale obbediamo, è che i bambini non dovrebbero pagare per il modo in cui sono stati messi al mondo. E che la biologia non può mai essere un assoluto. Secondo la Corte costituzionale, infatti, “l’evoluzione dell’ordinamento […] muovendo dalla nozione tradizionale di famiglia, ha progressivamente riconosciuto – e questa Corte lo ha evidenziato – rilievo giuridico alla genitorialità sociale, ove non coincidente con quella biologica (sentenza n. 272 del 2017), tenuto conto che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa (sentenza n. 162 del 2021)” (sentenza n. 32 del 28 gennaio 2021). La Corte così prosegue:

il legislatore […] dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili diritti dei minori [attraverso] una disciplina della materia che, in maniera organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore, nato da [procreazione medicalmente assistita] praticata da coppie dello stesso sesso, nei confronti anche della madre intenzionale).

Ormai è chiaro non solo che per questo governo e la maggioranza che lo sostiene tali “incomprimibili diritti” dei bambini semplicemente, non esistono, ma anche che, avendo il potere di distruggerli, non esiteranno a esercitarlo. Per fortuna esiste una magistratura indipendente. Resta solo da capire per quanto ancora.

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Maternità surrogata, la Corte europea dei diritti umani boccia i ricorsi delle coppie sulle mancate trascrizioni all’anagrafe

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