Fumata nera dopo i primi tentativi di disgelo tra Stati Uniti e Cina. Oggi, 18 giugno, era il giorno tanto atteso dell’incontro tra il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e il ministro degli Esteri cinese, Qin Gang, che avrebbe potuto rappresentare un primo passo verso la risoluzione delle controversie tra i due Paesi, con conseguenze su dossier di primaria importanza nel campo della sicurezza, da Taiwan all’Ucraina. Ma la visita, durata 6 ore, del capo della diplomazia Usa, quella di più alto livello dai tempi del suo predecessore, nel 2018, e la prima di questa portata con l’amministrazione Biden, non sembra aver portato buoni frutti. Se il Dipartimento di Stato Usa ha parlato infatti di colloqui “franchi”, “sostanziali” e “costruttivi”, con Blinken che ha sottolineato l’importanza della diplomazia e del mantenimento di canali di comunicazione aperti su tutta la gamma di questioni per ridurre il rischio di percezione errata e calcolo errato”, il commento del ministero degli Esteri di Pechino è stato gelido: le relazioni sono al “punto più basso” dal 1979, quando i due Paesi hanno avviato ufficialmente relazioni diplomatiche a livello di ambasciate.

A lasciare aperta una speranza è comunque il fatto che il segretario di Stato abbia invitato il suo omologo per un altro meeting a Washington e che questo abbia accettato. Lo stesso vale se si ascolta la motivazione data dall’establishment cinese alle iniziali dichiarazioni: hanno spiegato, infatti, che questa situazione “non è conforme agli interessi fondamentali dei due popoli, né soddisfa le aspettative comuni della comunità internazionale”, ricordando che la politica della Cina nei confronti degli Stati Uniti ha “sempre mantenuto continuità e stabilità ed è fondamentalmente basata sui principi di rispetto reciproco, coesistenza pacifica e cooperazione vantaggiosa per tutti”. Per questo, ha poi ribadito il ministro, Pechino è impegnata “a costruire relazioni sino-americane stabili, prevedibili e costruttive. Si spera che la parte statunitense sostenga una comprensione obiettiva e razionale della Cina”, la incontri “a metà strada, mantenga le basi politiche delle relazioni bilaterali e gestisca incidenti imprevisti con calma, professionalità e razionali”.

Ma i punti da chiarire e le distanze da colmare rimangono molti. Le differenze più difficili da superare riguardano però l’idea di futuro dei due leader, Joe Biden e Xi Jinping. Da una parte c’è la Cina, potenza in continua crescita che aspira a un nuovo ordine mondiale che superi il sistema unipolare attuale che vede gli Stati Uniti come potenza egemone. Dall’altra, appunto, proprio gli Usa che invece vogliono preservare lo status quo, arginando l’ascesa di Pechino e di altri Paesi emergenti. Una visione del futuro difficilmente conciliabile, tanto che i punti d’incontro possono forse essere trovati sui singoli dossier.

Il primo nell’agenda di Pechino è certamente quello di Taiwan. La tensione tra i due Paesi si è alzata vertiginosamente negli ultimi anni: ci sono stati l’appoggio di Pechino a Mosca, mentre Stati Uniti e blocco Nato hanno dato pieno sostegno alla causa ucraina, senza dimenticare l’abbattimento dei palloni spia cinesi sui cieli americani. Tutti episodi che hanno spesso portato Washington a condurre azioni provocatorie nello Stretto di Taiwan, vero nervo scoperto della Repubblica Popolare che non accetta intromissioni nello scontro con l’esecutivo di Taipei con aspirazioni autonomiste. Il principio della “Unica Cina” è una linea rossa per Pechino ed è stato sposato in passato anche dagli Stati Uniti. Per questo Xi Jinping e il suo entourage hanno più volte richiamato l’America chiedendo di rispettarlo. Anche Blinken, a margine dell’incontro, ha spiegato che il ministro Qin Gang ha esposto la posizione della Cina e ha formulato richieste chiare “sulla questione di Taiwan e su interessi fondamentali e preoccupazioni principali della Cina. La questione di Taiwan è il fulcro degli interessi fondamentali della Cina, la questione più importante nelle relazioni Cina-Usa e il rischio più importante”.

C’è poi la questione ucraina. Qui i punti d’incontro appaiono maggiori. Se da una parte Pechino ha promesso una “amicizia senza limiti” a Mosca, è anche vero che questo non si traduce in una vera alleanza, tantomeno dal punto di vista militare. Non a caso, la Repubblica Popolare non ha mai, almeno formalmente, fornito sistemi d’arma all’esercito di Vladimir Putin, ma si è limitata a garantire l’acquisto di enormi quantità di gas (a buon prezzo) dalla Federazione sostenendone così l’economia. Ma il Dragone sa anche che una rottura con il cosiddetto blocco occidentale non è una strada praticabile: con esso condivide quelli che sono di gran lunga i più fruttuosi interscambi commerciali che dovrebbero conoscere un ulteriore potenziamento man mano che va avanti il progetto della Belt and Road Initiative. Il sostegno a Mosca rappresenta solo l’ultima arma con la quale Pechino cerca di mettere alle strette Washington, contando sulla volontà del Cremlino di minare alle fondamenta l’ordine mondiale unipolare. Ma la Cina non è disposta a sacrificare gli affari in nome di Mosca.

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