Dell’Utri era praticamente quello che investiva, qui c’è stato un investimento di soldi mafiosi. È lì il problema. Chi può parlare? Solo Dell’Utri”, diceva Emilio Fede al suo personal trainer. “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”, raccontava il boss Giuseppe Graviano in carcere. “Noi abbiamo sempre lavorato come c’han sempre detto, ovvero alla c…“, ammetteva uno dei tecnici di Spea, la società controllata da Autostrade che si occupava della manutenzione delle infrastrutture, tra cui il ponte Morandi. Mentre all’hotel Champagne di Roma, la sera del 9 maggio 2019, l’ex ras delle correnti Luca Palamara discuteva con i renziani Cosimo Ferri e Luca Lotti le manovre per influire sulle nomine dei vertici delle Procure di Firenze (che indagava Matteo Renzi) e di Roma (che indagava Lotti).

Sono solo alcuni esempi di conversazioni intercettate di cui, secondo il ddl di riforma della giustizia varato dal ministro Carlo Nordio, i cittadini non sarebbero dovuti venire a conoscenza. Nel provvedimento, infatti, si riscrive la disciplina del divieto di pubblicazione dei contenuti dei nastri, prevista dall’articolo 114 del codice di procedura penale: se adesso è vietato riportare sui media soltanto quelli non depositati dai pm o non acquisiti su richiesta dei difensori, da domani il divieto si estenderà a qualsiasi dialogo che non sia stato “riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”.

Nessuna notizia sul Rolex a Lupi jr – In pratica si potranno portare alla conoscenza dell’opinione pubblica solo le intercettazioni contenute in un’ordinanza di custodia o in un eventuale provvedimento del tribunale del Riesame. Sarà vietato, invece, diffondere ciò che è contenuto nelle richieste della Procura o nelle informative di polizia giudiziaria allegate ad atti d’indagine. Una differenza fondamentale, visto che a volte il gip non cita nelle ordinanze conversazioni che non servono per giustificare la misura, ma che possono essere importanti per l’opinione pubblica. Un esempio? Il caso del Rolex regalato da un imprenditore al figlio di Maurizio Lupi, che all’epoca era ministro delle Infrastrutture. Senza considerare che spesso i giudici inseriscono nelle ordinanze soltanto stralci di conversazioni, il cui contenuto integrale ne cambia completamente il senso: su questro fronte, dunque, la riforma Nordio limita le garanzie degli indagati. Paradossalmente, non si potrebbero più pubblicare nemmeno eventuali intercettazioni ignorate dal gip che dimostrassero l’innocenza dell’indagato.

Il caso Palamara – Di sicuro c’è solo che se la nuova legge varata dal governo di Giorgia Meloni fosse stata già in vigore non avremmo conosciuto le manovre messe in atto da politici e consiglieri del Csm, guidati da Palamara, per influire sulle nomine dei procuratori. È l’ormai noto scandalo che ha colpito al cuore il mondo delle toghe: il trojan installato sul cellulare dell’ex presidente dell’Anm ha registrato il famoso incontro notturno dove oltre a Palamara, Lotti e Ferri discutevano del futuro della Procura di Roma anche cinque consiglieri togati di palazzo dei Marescialli, che poco dopo avrebbero dovuto votare sulla nomina. I dialoghi intercettati grazie al trojan sul telefono di Palamara hanno fatto emergere uno spaccato inquietante: Si arriverà su Viola“, diceva a un certo punto Lotti, che da quell’ufficio era indagato per il caso Consip, riferendosi a uno dei candidati, Marcello Viola (attuale procuratore di Milano). L’ex consigliere Csm Luigi Spina, invece, complottava con Lotti per far spostare Giuseppe Creazzo, che indagava su Renzi, dalla poltrona di procuratore di Firenze: “Te lo dobbiamo togliere dai coglioni il prima possibile”. Molte di quelle conversazioni, però, non erano contenute in alcuna ordinanza, perché nessuna misura cautelare era stata chiesta dalla Procura di Perugia, che indagava per corruzione (il processo a Palamara si è recentemente chiuso con un patteggiamento): dunque, le intercettazioni del cosiddetto scandalo nomine non sarebbero mai divenute note. Il Csm si sarebbe attivato comunque in sede disciplinare, ma i cittadini non avrebbero conosciuto i dettagli dei traffici nel mondo della magistratura.

Le parole del boss delle stragi – Ancora più clamoroso è il caso di Giuseppe Graviano, il boss di Cosa nostra condannato per le stragi del 1992 e 1993. Tra il 2016 e il 2017, il mafioso che i suoi uomini chiamavano con deferenza “Madre natura” è stato intercettato in carcere dalla procura di Palermo. “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia. Loro dicono che era la mafia”, dice il boss al suo compagno di socialità. Intercettazioni criptiche in cui Graviano sembrava citare più volte Silvio Berlusconi. “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza. Nel ’92 già voleva scendere. Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa“, è l’intercettazione che aveva colpito maggiormente gli investigatori. Parole che fanno il paio con quello che Graviano rivolgeva sempre a Berlusconi. “Mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché tu ti rimangono i soldi. Dice: non lo faccio uscire più, perché sa che io non parlo, perché sa il mio carattere”. E ancora ricordava che lui e suo fratello erano “a testimoniare nel processo di Dell’Utri nel 2009. Perché si preoccupava. Dice: se questo parla a me mi arrestano subito. Umbè, ha fatto tutte cose così. Ora a me non mi interessa più niente”. Quelle intercettazioni non erano contenute in alcuna ordinanza di custodia e neanche in provvedimenti del Riesame. Le cinquemila pagine di registrazioni, però, hanno portato la procura di Firenze a riaprire le indagini sulle stragi del 1993, iscrivendo nuovamnete Berlusconi e Dell’Utri con l’accusa di essere i “mandanti esterni” delle bombe di Firenze, Roma e Milano. Accuse mai dimostrate e che in passato sono state archiviate più volte. Ma è un fatto che, dopo essere stato intercettato, Graviano ha deciso per la prima volta di parlare in un’aula di tribunale. Durante il processo ‘Ndrangheta stragista ha sostenuto di essere stato in affari con Silvio Berlusconi e di averlo incontrato almeno tre volte mentre era latitante. Accuse mai riscontrate e sempre smentite dagli avvocati dell’uomo di Arcore. Va detto che però Berlusconi è morto senza aver mai denunciato per calunnia il boss di Cosa nostra.

La registrazione di Emilio Fede – Nessuna denuncia neanche per Emilio Fede, storico direttore del Tg4 e per molti anni fedelissimo del leader di Forza Italia. Anche Fede era finito – da non indagato – nell’indagine della procura di Palermo. Il motivo? Le conversazioni registrate dal suo personal trainer, Gaetano Ferri. Era il 2012 e in un file inviato alla procura di Monza e quindi spedito in Sicilia si sentiva Fede spiegare alcuni passaggi dei collegamenti tra Arcore, Dell’Utri e Cosa Nostra: “C’è stato un momento in cui c’era timore e loro avevano messo Mangano attraverso Marcello”. Il personal trainer ribatteva: “Però era tutto Dell’Utri che faceva girare”. “Si, si era tutto Dell’Utri, era Dell’Utri che investiva,” rispondeva Fede. Che poi si poneva una domanda retorica: “Chi può parlare? Solo Dell’Utri. E devo dire che in questo Mangano è stato un eroe: è morto per non parlare. Quindi il giornalista aveva fornito al suo personal trainer la sua estrema sintesi di quarant’anni di potere economico e politico: “La vera storia della vicenda Berlusconi? Mafia, mafia, mafia, soldi, mafia”. Dopo la diffusione del nastro Fede fu interrogato dalla procura di Palermo. Il contenuto di quel nastro non si sarebbe potuto diffondere se la riforma Nordio fosse già stata in vigore.

Le intercettazioni dei ponte Morandi – Non facevano parte di ordinanze di misure cautelari nemmeno molte delle intercettazioni di dirigenti e manager di Autostrade per l’Italia effettuate nel corso delle indagini aperte dalla Procura di Genova dopo il crollo del ponte Morandi. “La Procura voleva essere garantita che quell’opera fosse solida, insomma a posto… Ha fatto fare l’ispezione con Spea, da 43 come voto (Spea) ha dato 50 (in una scala del rischio di un’infrastruttura un voto più alto indica condizioni peggiori, fino al pericolo crollo fra 60 e 70, ndr). E oggi c’era la Guardia di finanza in società”, diceva Paolo Berti, ex direttore centrale operazioni di Autostrade per l’Italia, parlando con Michele Donferri Mitelli, ex capo nazionale delle manutenzioni. Poi aveva agginto: “Ma io non so… cosa mandavano… Io ripeto, per me mandavano i ciechi! Mandavano i ciechi a fare ispezioni questi! I ciechi!”. Un’altra conversazione captata dalla procura di Genova era quella fra Massimo Ruggeri e Marco Trimboli, tecnici di Spea che erano indagati per falso. Trimboli si sfogava facendo capire qual era l’andazzo delle verifiche: “Noi abbiamo sempre lavorato come c’han sempre detto… ovvero alla c… perché se vai a vedere un ponte di giorno… eh, ci siamo mai andati di giorno? No… perché non han chiuso prima? Per il traffico… eh bè, chiudi tre ore e ci vai… cioè vai a vedere un ponte di notte? Chiudi e lo vai a vedere di giorno, non vai di notte con le lampade”. Nel marzo del 2021 la Procura ha messo le intercettazioni a disposizione delle difese considerandole “rilevanti”: non essendo passate al vaglio di un giudice, però, non si sarebbero potute pubblicare.

I casi Verona, Juve e Miccoli – E la stessa cosa sarebbe avvenuta per le intercettazioni e le immagini dei poliziotti della questura di Verona, accusati di tortura, lesioni aggravate e altri reati. I dialoghi e le registrazioni video dei pestaggi, infatti, non erano nell’ordinanza. Non comparivano in nessun provvedimento del giudice nemmeno le conversazioni tra Andrea Agnelli e John Elkann nell’indagine “Prisma” della Procura di Torino sul falso in bilancio della Juventus: Agnelli, presidente del club, parla con il cugino (azionista della holding Exor, non indagato) di “eccessivo ricorso” allo “strumento delle plusvalenze”, con la conseguenza che “abbiamo ingolfato la macchina con ammortamenti (…). E soprattutto la merda… Perché è tutta la merda che sta sotto che non si può dire”. Lo stesso vale per Fabrizio Miccoli, condannato nel 2021 a tre anni e sei mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso. L’ex calciatore del Palermo era accusato di aver chiesto a Mauro Lauricella, figlio di Nino, boss del quartiere Kalsa, di chiedere la restituzione di prestito che era stato fatto da un suo amico. Nell’indagine, però, gli investigatori intercettano Miccoli mentre con Lauricella junior offende Giovanni Falcone (“Quel fango di Falcone…”). Che un calciatore insulti un magistrato ucciso da Cosa nostra non è di per sè un reato. Di sicuro, però, è una notizia, cioè il bersaglio principale della riforma Nordio.

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