di Ilaria Muggianu Scano

Ora che il Cavaliere è disarcionato, che ne sarà del femminismo italiano? Umberto Eco, tra le mille intuizioni semiologiche, vergò un piccolo pamphlet, passato quasi inosservato, dal titolo La costruzione del Nemico, una riflessione nata nel 2008 ma straordinariamente contigua allo scenario sociale odierno. Morale della favola: il nemico è sempre funzionale a un obiettivo specifico. “Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto, quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo” assicura l’ autore de Il nome della rosa.

Oggi che il Cavaliere, nemico trentennale per antonomasia della lotta al riequilibrio di genere, non c’è più, occorre capire se il femminismo come sovrastruttura sociale parapolitica verterà sull’orizzonte della sorellanza del femminismo radicale o verso la sororità, aperta all’ “una mano lava l’altra e insieme (a quella maschile) lavano il viso”, una prospettiva più accomodante e aperta alla sinergia con l’uomo. L’indignazione come sentimento diffuso, oggi, è tramontato o sarà un versipelle strumento di propaganda, utile a titillare il partito del non voto, marcato Gen Z?

I primipari delle urne elettorali non hanno conosciuto, se non da TikTok, i riflessi dell’intreccio tra sesso e potere degli anni gaudenti, da Colpo Grosso al Drive In, dalle veline alle ninfette di Non è la Rai, per tacer di Letterine, Letteronze e mercificazione del corpo della donna, variamente assortita, da far urlare nelle piazze slogan come: “Più Ilde Boccassini e meno olgettine”. Il berlusconismo era forte e compatto anche grazie alla polarizzazione con il femminismo, o forse il contrario?

In più di un’occasione non è mancato chi restituiva la lettura di movimenti femministi come SNOQ (Se non Ora Quando), come impalcature cibate dalle sinistre a, unico, favor di propaganda contraria al berlusconismo. Nell’età del Biscione crepuscolare persino icone berlusconiane, poi femministe, poi di nuovo tiepide davanti al femminismo della revisione toponomastica, sembrano perdere interesse alla causa. Ad esempio se un’Ambra Angiolini, battezzata e più volte benedetta dalle reti Mediaset, urlerà qualcosa di davvero poco maggese dal palco del concertone del primo maggio: “Una donna su 5 non lavora dopo un figlio, guadagna un quinto in meno di un uomo che copre la stessa posizione. Tenetevi le vocali, ridateci i diritti”. Insomma, un pensiero non esattamente allineato a quello degli antichi fasti delle sommosse in piazza.

Le primogeniture del femminismo radicale fanno notare ad Ambra che forse è stanca, forse non intendeva dire proprio questo, forse si è espressa male. Nessuna si sarebbe espressa male dal 26 gennaio 1994 fino al far della sera della Seconda Repubblica, quando il nemico, per dirla alla Umberto Eco, era gagliardo ed evidente.

E ora? Che l’amnistia generale della scomparsa di Silvio Berlusconi, che ha bloccato il Paese intero, abbia mitigato persino la capacità di mobilitazione di una volta di un femminismo arrivato forse più per destino politico che per scelta?

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