Il mio quarto Primavera Sound di Barcellona, il secondo consecutivo, non si scorda mai. Un pieno di linfa musicale. Un’esperienza mistico-agonistica. Con tanto di febbre del ritorno. “I’ll be your mirror” il manifesto sonoro programmatico, “Nobody is normal” quello culturale, esistenziale. Il sentimento di un mondo quasi perfetto, senza pregiudizi né retropensieri, dove si è liberi di essere sé stessi. È da tempo che la grande manifestazione catalana, ormai riprodotta sia in patria (Madrid) che nel resto del globo (da Porto a San Paolo a Buenos Aires), ha sposato la causa del movimento Lgbtq+. Non a caso va ad aprire, con sincronia mirabile, il mese del Pride, giugno.

Che meraviglia perdersi nel suo oceano globale di 250mila appassionati-spettatori: nazione nomade indipendente, li riconosci dal pass d’ingresso d’ordinanza al polso. Ragazzi e ragazze giovani per lo più, ma a migliaia pure i boomers. E le decine di chilometri percorsi, le migliaia di scalini saliti e scesi, il senso d’esaurimento batterie a fine serata: ma l’acido lattico svanirà e resteranno solo le emozioni.

Anche quest’anno il Primavera non ha deluso le aspettative, tra vecchie glorie e sensazioni nuovissime. Chitarre elettriche qua e là, sintetizzatori a go-go, un’indulgenza forse eccessiva per la scena rap e trap. Indie-pop, post-rock, elettronica, heavy metal, cantautorato, reggaeton. Melodia e dissonanze, mainstream e avanguardia, dj-set, jazz, world. Tre giornate costellate dalle solite centinaia di concerti sulla girandola di palchi spesso ben distanti tra di loro del Parc del Fòrum, dal primo pomeriggio alle prime luci dell’alba.

L’orario di rientro per la maggioranza, visto che a parte l’orario continuato del sabato la metro riapre, nella città di Gaudì, alle 5 del mattino. Personalmente, a questo giro, ho visto: i Depeche Mode, straordinari, si sono anche commossi sia nel ricordare il loro Andy Fletcher che per l’abbraccio della folla; i Blur, dodici mesi dopo l’epifania dei Gorillaz, con un Damon Albarn in grande spolvero, hanno suonato dalle 2 alle 4 di notte eseguendo, per la prima volta in oltre due decenni, “Luminous”; Rosalia, il nuovo idolo pop non più locale ma di massa, pure lei ha cantato a notte fonda ma giusto un’ora di ordinanza, o meglio, è stato un mega-karaoke collettivo il suo, abbagliato e obnubilato dagli smartphone; i New Order, ballatissimi dalla generazione Z, il loro viaggio nella memoria ha toccato l’apogeo nel bis con “Love Will Tear Us Apart”, gigantografia di Ian Curtis e tributo alla loro precedente esistenza come Joy Division.

E poi ancora, Christine and the Queens (una meraviglia già solo vederla muoversi), i Delgados (i migliori anni zero, basso, batteria, chitarra, viola, violino e ritornelli sognanti), Kendrick Lamar (più che altro ci ho provato), Holly Humberstone (piacevolissima), Caroline Polacheck (arrivata con l’hype dell’“album dell’anno” ma dal vivo, mah), St. Vincent (alla lunga un po’ ripetitivamente obliqua nel suo ostinato art-pop). Frammenti di Halsey e Comet is Coming, le prime cinque canzoni dei Maneskin (non erano tra gli headliners ma ho avuto conferma che sono davvero amati nel resto del pienata).

Avessi avuto il dono dell’ubiquità (o fatto alcune scelte migliori), avrei inoltre visto molto volentieri: Blondshell, Le Tigre, gli Shellac, Nation of Language, Unwound, Japanese Breakfast, i Bad religion, Four Tet, Maggie Rogers, Domi & Jd Beck, The war on drugs, Laurie Anderson, Jockstrop…

E intanto tutti i Primavera Sound addicted che si rispettano hanno già iniziato il conto alla rovescia per l’edizione del 2024: qui non parliamo più di un semplice festival ma di una sorta di fenomenologia dello spirito, di un rito neo-pagano collettivo. Uno specchio, felice, dei tempi.

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