C’è silenzio nell’aula bunker di Lamezia Terme mentre parla il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Al suo fianco i sostituti della Direzione distrettuale antimafia Antonio De Bernardo, Annamaria Frustaci e Andrea Mancuso. Dopo due anni e mezzo di dibattimento, con udienze tenute quasi ogni giorno, il processo “Rinascita-Scott” è agli sgoccioli e rischia di consegnare alla storia quello che in Calabria è il vero “partito di maggioranza”: il partito degli affari, attorno al cui tavolo siedono tutti, non solo la ‘ndrangheta. Imputati di fronte al Tribunale di Vibo Valentia, infatti, ci sono i boss della cosca Mancuso di Limbadi e quelli delle altre famiglie mafiose vibonesi, ma anche imprenditori, ex parlamentari, ex consiglieri regionali, sindaci, carabinieri, uomini dei servizi segreti e professionisti. Pezzi infedeli dello Stato troppo spesso chiamati in maniera generica “colletti bianchi”, ai quali la Dda di Catanzaro è riuscita a dare un nome e un cognome. Su tutti l’ex senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli, avvocato e massone accusato di concorso esterno con la ‘ndrangheta, per il quale sono stati chiesti 17 anni di carcere.

Un processo storico – I numeri danno ragione a chi nel dicembre 2019, quando scattarono gli arresti, definì “Rinascita-Scott” la “più grande operazione dopo quella che portò al maxi-processo di Palermo a Cosa nostra”. Non è un caso che per celebrare le udienze in Calabria sia stato necessario costruire una nuova aula bunker, in attesa della quale le udienze preliminari sono state celebrate a Roma, nel carcere di Rebibbia. Al termine della requisitoria, per 322 dei 338 imputati il procuratore Gratteri e i suoi sostituti hanno chiesto condanne fino a trent’anni di reclusione, per un totale di 4.744 anni di carcere, oltre a 13 assoluzioni e tre fra prescrizioni e nullità del decreto che dispone il giudizio. Più che del terremoto giudiziario, i millenni di carcere chiesti dai magistrati sono il simbolo di quel coacervo di interessi che è il cuore del rapporto tra ‘ndrangheta, politica e massoneria. Il processo è stato un percorso a ostacoli che non ha risparmiato a Gratteri nemmeno l’indifferenza di chi avrebbe dovuto essere al suo fianco. Dalle sue parole emerge il carattere di un magistrato abituato ad andare dritto per la sua strada, costretto a dribblare l’odio viscerale della ‘ndrangheta, il disprezzo di certa politica e l’invidia di sepolcri imbiancati che per decenni si sono girati dall’altra parte, consentendo alle cosche di infiltrarsi nelle istituzioni del vibonese. “In pochi avevano creduto in questo processo, per la mole degli imputati, per il collegio dalla giovane età. C’è stata una sorta di tifo perché non si celebrasse, ma si è svolto con serenità e, se ci sono stati momenti di tensione, è normale. È il sale del processo”, dice.

Il ruolo di Pittelli, “cerniera tra due mondi” – Non fa nomi, e neanche sconti, Gratteri. Ma le dichiarazioni di alcuni colleghi all’indomani dell’operazione “Rinascita”, l’atteggiamento delle Camere penali (che nel luglio dell’anno scorso hanno scioperato di fatto contro la Procura di Catanzaro) e, soprattutto, le interrogazioni parlamentari (basate su false premesse) in difesa dell’ex senatore Giancarlo Pittelli si incastrano perfettamente con le sue riflessioni prima delle richieste di condanna. Pittelli, accusato di concorso esterno, aveva rapporti con il mammasantissima Luigi Mancuso, detto il “Supremo”. Rapporti che, secondo la Dda, andavano oltre i contatti leciti tra avvocato e cliente. Pittelli infatti è considerato “la cerniera tra i due mondi” in una “sorta di circolare rapporto “a tre” tra il politico, il professionista e il faccendiere”. In altre parole, – si legge negli atti di “Rinascita” – Pittelli era “l’affarista massone dei boss della ‘ndrangheta calabrese” che con lui è riuscita a relazionarsi “con i circuiti bancari, con le società straniere, con le università e con le istituzioni tutte”. I boss lo nominavano loro avvocato “in quanto capace di mettere mano ai processi con le sue ambigue conoscenze e rapporti di “amicizia” con magistrati”.

La carriera dell’ex parlamentare – A metà degli anni 2000, l’ex parlamentare azzurro finì al centro dell’inchiesta “Why Not”, da cui uscì pulito. Il lavoro dell’allora pm Luigi De Magistris, però, era solo la punta dell’iceberg che il procuratore Gratteri e i suoi sostituti hanno fatto emergere. Eletto deputato dal 2001 e già membro della Commissione Giustizia della Camera, Pittelli è stato uno dei consiglieri più ascoltati da Silvio Berlusconi in materia di riforma del sistema giudiziario. Nel 2006 è passato al Senato, ma nel 2011, dopo aver litigato con l’uomo di Arcore, non venne più candidato: qualche anno più tardi ha aderito a Fratelli d’Italia. In un’intercettazione, i carabinieri lo sentono raccontare di aver ricevuto una telefonata da Giorgia Meloni che gli offriva una candidatura alla Camera. Quando è stato arrestato lo ha scaricato in meno di trenta secondi ma due anni prima, nel 2017, per dargli il benvenuto in Fratelli d’Italia, la futura presidente del Consiglio, con un post su Twitter, lo definì “un valore aggiunto per la Calabria e per tutta l’Italia”. In quegli anni, però, per la Dda di Catanzaro Pittelli era piuttosto parte integrante del sistema di potere che divora le risorse pubbliche della Regione. I pm non hanno dubbi: il ruolo dell’ex senatore era “in quella particolare frangia di collegamento con la società civile, rappresentata dal limbo delle logge coperte”. Per tutto ciò, secondo i pm, merita 17 anni di carcere, uno in meno di quelli chiesti per l’ex sindaco di Pizzo Calabro, l’ex renziano Gianluca Callipo, accusato sempre di concorso esterno con la ‘ndrangheta. Vent’anni, invece, la pena richiesta per Pietro Giamborino, l’ex consigliere regionale che i pm antimafia considerano a tutti gli effetti appartenente alla cosca di Piscopio.

Le richieste di pena per boss e “colletti bianchi” – Se il Tribunale dovesse accogliere le conclusioni della Dda, resteranno a lungo in carcere boss come Saverio Razionale e l’ex latitante Pasquale Bonavota, arrestato qualche settimana fa a Genova. Per entrambi la richiesta è di trent’anni di reclusione, così come per Domenico e Nicola Bonavota, Domenico Cugliari, Antonio Larosa, Paolino Lo Bianco, Antonio Macrì, Salvatore Morelli, Valerio Navarra, Agostino Papaianni, Rosario Pugliese e Antonio Vacatello. Oltre al boss Peppone Accorinti, la cui posizione è stata stralciata, all’appello manca il big di Limbadi, il “Supremo” Luigi Mancuso, detto lo “zio” per il quale è in corso un processo a parte. Le pene chieste per l’ala militare dei clan fanno il paio con quelle per i “colletti bianchi” che, secondo la Procura, non sono solo i politici Callipo, Giamborino e Pittelli. Se per l’avvocato Francesco Stilo sono stati chiesti 15 anni di carcere, due in più sono quelli auspicati per Michele Marinaro, l’ex agente della Dia passato ai servizi segreti. Secondo l’accusa è stato lui, nel maggio 2019, a informare Pittelli che la Procura di Catanzaro lo avrebbe arrestato da lì a poco. Per i pm, Marinaro è stato la “barba finta” responsabile delle fughe di notizie registrate durante le indagini, quando la Dda ha notato la frenesia delle cosche vibonesi che volevano rintracciare il contenuto dei primi verbali del pentito Andrea Mantella. Rischiano pene pesanti anche gli altri presunti uomini di Stato infedeli, come l’ex capitano dei carabinieri Giorgio Naselli (otto anni), e l’ex comandante della polizia municipale di Vibo Valentia Filippo Nesci (sei anni), nonché imprenditori come Mario e Umberto Artusa (rispettivamente 29 e 26 anni di carcere), Mario Lo Riggio (22 anni) e Gianfranco Ferrante (26 anni) considerato dall’accusa il “bancomat” dei clan del Vibonese.

Un processo in trincea – La requisitoria si è conclusa nel tardo pomeriggio di mercoledì dopo due anni e mezzo di dibattimento. Un processo in trincea sia sul fronte della Procura che su quello delle difese: lo si percepisce dall’ultima riflessione del procuratore Gratteri che, con i suoi pm, si dice “sereno e convinto di aver fatto in pieno il nostro lavoro”. Rivolgendosi alla presidente del collegio, Brigida Cavasino, ha concluso: “Qualche volta si è andati fuori le linee. Ma non è un problema: lei ha saputo farlo rientrare. E questo è importante: aver dato la possibilità a tutti di parlare, di sviscerare, anche di tornare tre volte sullo stesso tema, sulla stessa domanda. Il processo poteva finire un mese prima, due mesi prima, ma non cambia. La cosa importante è ci sia stata la possibilità di portare sul tavolo di questo collegio tutto quello che c’era a carico o a discarico degli imputati”.

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